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Il Sinodo e la profezia di Paolo VI

L’anno scorso il Sinodo straordinario sulla famiglia si concluse con la beatificazione di Paolo VI, il Papa della “famigerata” (secondo il mainstream postconciliare) Humanae Vitae.

Forse i padri sinodali (e non solo) non farebbero male, ora che si è chiuso anche il Sinodo ordinario, a rileggere le parole pronunciate da Papa Montini il 24 agosto 1968 incontrando i vescovi dell’America Latina: “…siamo tentati di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura d’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio“.

Si era nel 1968, l’anno simbolo di quella rivoluzione che come hanno descritto Kampowski e Crawford in un bellissimo articolo pubblicato dal Foglio mercoledì scorso, è stata all’origine della crisi della famiglia per aver scisso la sessualità dalla procreazione. Ora si cercano nuovi approcci pastorali perché, si dice, le sfide sono cambiate.

Quella che invece non è cambiata è la tentazione di cui parlava Paolo VI con profetica lungimiranza: modellare un cristianesimo a misura d’uomo anzichè a misura dell’autentica parola di Dio. Che poi, a bene vedere, è la stessa tentazione che soggiaceva (e anche qui la musica non è cambiata) alle dispute ecclesiologiche degli anni ’70 e ’80, dove s’impose come un mantra la nuova parola d’ordine: inculturazione.

Il refrain, in sintesi, era questo: per evangelizzare l’uomo di oggi la chiesa deve inculturare il messaggio evangelico, ovvero cercare di accordare il Vangelo sulla lugnhezza d’onda delle categorie culturali e dei costumi dei popoli con i quali si ha a che fare. Il che comportava, secondo questa impostazione, la necessità di un radicale processo di de-ellenizzazione non solo della teologia ma più in generale del cristianesimo stesso. Che è un po’ come dire, andando all’osso, che Gesù poteva andar bene per la Palestina del I secolo, ma non per il Giappone o l’Africa o l’India dei giorni nostri.

Un approccio, questo dell’inculturazione, che presenta più di un aspetto critico e scivoloso, e contro il quale all’epoca un tale Joseph Ratzinger oppose il concetto di inter-culturazione, che è tutt’altra musica. Eppure, come anche il Sinodo ha ampiamente confermato, a distanza di decenni l’inculturazione continua a riemergere sotto altre spoglie e con altri linguaggi, segno evidente che a parte famiglia e divorzati risposati, il dibattito vero (ma sarebbe meglio parlare di scontro perché di questo si tratta) è sulle stesse questioni mai sopite che toccano il significato stesso della chiesa e della sua missione nella storia.

Staremo a vedere.


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