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L’economia ai tempi dello Zero Lower Bound: l’eterno ritorno di Say

Uno degli esiti meno osservati, ma proprio per questo rilevanti, del tempo dello zero lower bound nella quale ci hanno infilato le banche centrali, è che, piano piano, sta cambiando il paradigma economico, ossia lo sguardo col quale gli astrusi teorici dell’economia formale incorniciano il mondo.

Il che a ben vedere potremmo pure liquidarlo con un’educata alzata di spalle. Le persone di buon senso non s’impiccano sui certi paper che gli economisti scrivono per sé stessi, dove primeggiano formule geroglifiche incomprensibili a meno che non abbiate studi di matematica superiore alle spalle.

E invece bisogna infliggersela, questa punizione, perché nulla più di uno studio astruso rivela lo spirito del tempo, quello sì da comprendersi necessariamente, che poi i più avveduti noteranno il svolgimento coerente ormai da decenni.

Ne ho piena contezza mentre scorro tenendomi forte per non cadere in curva un working paper della Bank of England pubblicato di recente (“Some unpleasant properties of loglinearized solutions when the nominal rate is zero”) che conferma una convinzione che vado maturando da tempo: l’economia dell’offerta, ossia quella che si basa sulla produzione, sta lentamente riacquistando credito nelle torri eburnee dell’economia dopo aver praticamente invaso il campo delle politiche economiche almeno da un trentennio. La teoria, è noto, ci mette un po’ a digerire la pratica.

Perché non pensiate che questo post sia servito solo per i palati degli amanti delle scienze economiche, che da un paio di secoli stanno cercando di mettersi d’accordo circa l’annosa domanda, che ricorda quella dell’uovo e della gallina, se sia l’offerta a creare la domanda, come dicevano i classici come sommarizzato dalla legge degli sbocchi di Say, o la domanda a creare l’offerta, come dicono i vari emuli di Keynes, mi premuro di ricordarvi che le due diverse angolature producono differenti risposte di policy e quindi effetti diversi sulla società.

Ve ne do subito un assaggio. Nello studio della BoE, condotto per analizzare la funzionalità della politica fiscale sul lato della domanda, ossia spesa pubblica come stimolo alla crescita, si arriva alla conclusione (sempre ampiamente preceduta da caveat) che al contrario di quello che ipotizzavano i modelli neokeynesiani classici “aumenta la possibilità che possa esserci un ruolo nell’uso di politiche basate sull’offerta (supply-side) per stabilizzare l’economia in un ambiente di bassi tassi d’interesse”. Ergo: lo zero lower bound, cui le banche centrali sono arrivate proprio in applicazione dei modelli, ha creato le condizioni ideali affinché oggi qualcuno ipotizzi che le politiche supply-side possano funzionare.

In questo meraviglioso corto circuito, che dice tutto del discorso economico contemporaneo, è utile ricordare che le politiche supply-side, che puntano su un aumento della produzione lavorando sul lato dei costi delle imprese, quindi, denaro, tasse e salari, nella immaginifica fantasia degli ecoconomisti si confrontano con quelle dal lato della domanda, della quali l’esempio più illustre è il cosiddetto stimolo fiscale: ossia il governo spende soldi per aumentare la domanda globale e quindi aggiungere benzina alla crescita.

Quest’ultima teoria si basa sul fatto – semplifico per non annoiarvi troppo – che la spesa pubblica abbia un effetto moltiplicativo pari a un numero X, e che quindi generi un reddito superiore alla spesa. Molti modelli neokeynesiani lo quantificano in due o più.

Bene. Quello che dice il nostro paper, che rielabora i modelli neokeynesiani sotto diverse premesse, è che in un contesto di zero lower bound “il moltiplicatore del governo è circa uno o meno mentre la risposta dell’occupazione a un taglio delle tasse sul lavoro è positivo”.

Tradotto in termini che suonino familiari all’orecchio assordato dalla cronaca, il governo farebbe bene, nel contesto monetario in cui abitiamo, a tagliare le tasse sul lavoro piuttosto che aumentare la spesa pubblica, magari sotto forma di maggiori sussidi alla domanda. Tipo gli 80 euro, per intenderci.

Vale la pena notare uno dei tanti caveat. “La durata attesa dei tassi a zero – spiegano gli autori – gioca un ruolo centrale le proprietà di equilibro dello zero bound”. E poiché l’attuale situazione dei tassi è stata superiore ai sette trimestri negli Usa e nel Giappone, dove i tassi sono stati azzerati sin da 2008, ecco soddisfatta una delle condizioni messe a base del modello.

Un’altra condizione che è stata messa alla base della simulazione è che il modello riproduca la grande perdita di prodotto, il 7%, a fronte di un calo modesto dell’inflazione, l’1%, registrato durante la Grande Depressione degli anni ’30, che perciò si conferma essere, nella testa degli economisti, il benchmark dei nostri tempi sofferti e insieme la Grande Madre del nostro lungo e tormentato ciclo economico.

La sintesi che ne ho tratto mi conferma nella convinzione che lo spirito del tempo, che poi è l’unica cosa che dovremmo comprendere, disegna una società dove la logica della produzione finalmente libera dalle ipocrisie sociali della piena occupazione, retaggio del secondo dopoguerra, si candida a scrivere la trama della nostra contemporaneità. E che a tale esito cospirano tutte le intelligenze, a cominciare da quella degli economisti, che sul feticcio della produzione hanno costruito e mantengono le loro carriere sin dagli anni ’50.

Il problema è che oggi i prodotti siamo noi.

Twitter: @maitre_a_panZer


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