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Cosa possono fare l’Italia e la Nato in Irak e in Libia. Parla l’ambasciatore Stefanini

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L’Europa, e con essa l’Italia, vive uno dei momenti più critici della sua recente storia. Minacce da sud e da est mettono in pericolo la sua sicurezza.

In un’intervista di Formiche.net con l’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentate permanente d’Italia presso la Nato e consigliere diplomatico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si affrontano le questioni più scottanti che attraversano Siria, Libia e Iraq, passando per il nuovo attivismo russo, il dibattito sul ruolo dell’Italia nella coalizione contro il terrorismo e l’importanza delle relazioni transatlantiche sia nel contesto Nato sia in termini di cooperazione industriale con il programma Meads e degli F35.

Ambasciatore, tra i due fronti che minacciano la sicurezza dell’Europa e quella internazionale, quali sono le differenze?

Quella da est, il pericolo di un ritorno militare russo, è una minaccia di tipo tradizionale: la minaccia di uno Stato ai propri vicini. La Russia a sua volta avverte la presenza della Nato ai propri confini come una minaccia. Questa situazione mette in particolare difficoltà i Paesi che, come l’Ucraina, si trovano in una zona grigia, non facendo parte né della Nato né dell’Ue. Per i Paesi della Nato, la solidarietà dell’Alleanza rimane un deterrente sufficiente nei confronti della Russia, ma è comprensibile l’apprensione – anche per motivi storici – dei nostri alleati orientali, come Polonia e Paesi Baltici.

E la minaccia da sud?

E’ diversa. Nessuno ha ancora veramente capito come affrontarla. Le abbiamo provate tutte: l’intervento unilaterale in Iraq; l’intervento multilaterale in Afghanistan; l’intervento multilaterale, ma senza uomini sul terreno, in Libia. Abbiamo provato a ignorare il problema in Siria; abbiamo anche provato a far finta che non esista in Nigeria con Boko Haram, non è che la Nigeria sia così lontana dall’Europa. Abbiamo intrapreso attività difensive classiche e di controterrorismo, ma non abbiamo trovato la strategia per rispondere alla minaccia da sud. Sarebbe importante che nei fora internazionali – Nato ma anche Ue – i Paesi della sponda sud, come l’Italia, dicano chiaramente cosa vorrebbero che la Nato, la comunità internazionale, facessero per contrastare questa minaccia. Finora ci limitiamo a ricordare che il sud è da considerare il fronte prioritario.

Il ruolo dell’Italia in Libia è determinante?

Certamente. In primo luogo perché siamo i più direttamente interessati, i più minacciati e quelli che possono trarre maggiori benefici da una Libia pacificata, per tre ordini di ragioni: energia, sicurezza e migrazioni. In secondo luogo perché conosciamo la Libia meglio degli altri. I rapporti che l’Italia ha costruito con il Paese e con il suo popolo, sia nell’era di Gheddafi che dopo, sono buoni. Eni continua a lavorare lì, malgrado la situazione caotica sul terreno. Conosciamo la Libia e abbiamo tutto l’interesse nazionale a evitare che il Paese finisca nel baratro degli stati falliti.

Secondo lei è valutabile un intervento militare di terra?

È difficilmente immaginabile, se non in un contesto multilaterale e internazionale, quindi con la legittimità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu e con il ruolo determinante dei Paesi della regione. Quest’ultimo scenario non facile, perché non tutti hanno la stessa agenda.  È chiaro che non può essere un’operazione né occidentale né europea. Occorre evitare di rievocare un sapore troppo coloniale.

Il nemico che si vuole contrastare in Libia è l’Isis o l’instabilità derivante dalla presenza di numerose fazioni tribali?

Il nemico è l’Isis, al-Qaeda e tutte le infiltrazioni jihadiste. Finora non hanno colpito in Europa. Lo hanno fatto indirettamente in Tunisia, facendo vittime fra turisti occidentali. Nel momento in cui ne avessero occasione, non avrebbero problemi a colpire in Italia, in Europa o, più in generale, in occidente. Per ora sono troppo impegnati a combattersi tra loro per il territorio in Libia. Le divisioni tribali non sono di per sé un nemico, ma sono un ostacolo alla riconciliazione nazionale. Se la Libia vuole continuare a essere uno stato unitario c’è bisogno che i gruppi tribali trovino un modus vivendi.

Un po’ quello che sta cercando di fare Bernardino Leòn?

Bernardino Leòn sta facendo miracoli, nei limiti in cui è possibile avere un dialogo con dei gruppi che si combattono tra loro, sia pure in conflitti a bassa intensità, in un contesto paradossale in cui, fra l’altro, la Banca centrale libica continua a funzionare e a far circolare denaro nel Paese – grazie all’attività delle società petrolifere. Questo fa sì anche che fino ad ora, incredibilmente, le varie milizie e fazioni abbiano rispettato i pozzi petroliferi e non abbiano fatto saltare gli oleodotti. Chiaramente fra Libia e Siria non c’è paragone: in entrambe c’è una guerra civile con infiltrazioni terroristiche, ma quello della Libia è un conflitto a ben più bassa intensità.

Se in Siria dovesse essere messo da parte Bashar al Assad, c’è rischio che anche lì si crei uno Stato fallito?

Oggi la possibilità che Bashar al Assad possa essere messo da parte di colpo è minimo. Innanzitutto l’intervento russo lo consolida molto. In una soluzione politica la persona Bashar al Assad dovrebbe farsi da parte, ma la componente alauita rimarrebbe comunque, in un quadro di divisione di potere. Gli americani, come anche noi europei – ricordiamoci che fu il Parlamento italiano a insistere per il ritiro dell’onorificenza concessa ad Assad dall’Italia – vogliono che Assad se ne vada. Ma questo non può avvenire dall’oggi al domani, se non c’è un programma per il giorno dopo. Specialmente se c’è rischio che il giorno dopo a Damasco arrivi l’Isis.

Parlando del recente intervento russo in Siria, come si inseriscono le relazioni europee con il Paese di Putin e le relazioni transatlantiche, considerando la distanza che intercorre tra Usa e Russia?

È troppo presto per dirlo perché mi sembra che in questo momento sia gli Usa che l’Europa stiano a guardare a cosa conduca l’intervento, si domandino qual è l’obiettivo della Russia e se questo obiettivo sia compatibile con una soluzione politica in Siria. Una soluzione che, non solo dal punto di vista degli occidentali, ma anche di varie componenti dell’opposizione, non può essere la restaurazione del potere del regime attuale, con o senza Assad, su tutta la Siria. La mia impressione è che l’intervento russo abbia sicuramente complicato i rapporti e non sia andato nella direzione di una cooperazione strutturata tra Russia, Usa ed Europa. Per ora non ne ha nemmeno accentuato le rivalità. Le dichiarazioni Usa sono sempre state molto guardinghe. Però non c’è stato nessun segno di rottura e contrapposizione frontale con la Russia, come ci fu ai tempi dei fatti dell’Ucraina. C’è crescente preoccupazione per l’escalation militare russa, quello sì.

Quindi si sta un po’ a guardare la situazione?

Putin ha preso tutti alla sprovvista. Si è mosso molto abilmente e con rapidità. È difficile pensare che un’escalation militare come quella russa faciliti la soluzione. In questo momento rimane da vedere quale sarà l’effetto di questo intervento.

Diciamo che ha rimescolato un po’ le carte?

Ha rimescolato moltissimo le carte.

E per quanto riguarda l’impegno dell’Italia, cosa pensa delle recenti discussioni circa la partecipazione del nostro Paese ai bombardamenti aerei in Iraq?

Mi sembra un falso problema. L’Isis o si combatte o non si combatte. Se si combatte, si combatte con le armi. Nella sostanza non c’è molta differenza fra quello che l’Italia già fa, con voli di ricognizione a sostegno dei bombardamenti della coalizione, e bombardamenti veri e propri. Né i rischi sono minori. L’impegno attuale dell’Italia è un compromesso ipocrita: partecipiamo ma non sganciamo bombe. Più presto ne usciamo meglio è. O in un verso o nell’altro: se pensiamo che l’intervento della coalizione contro Isis e a sostegno del governo di Baghdad sia sbagliato, ritiriamo i nostri quattro Tornado. Ovviamente io non la penso così e sono a favore di una piena partecipazione offensiva, anche per solidarietà con i nostri alleati. Solidarietà di cui potremo aver bisogno domani in Libia. Naturalmente occorre l’autorizzazione del Parlamento. Ma non vedo nulla d’irregolare nel fatto che il governo prenda la decisione (se l’ha presa, vista la smentita del Ministro Pinotti). L’importante è che la sottoponga all’approvazione parlamentare prima che venga sganciata una sola bomba italiana. Sono anche curioso di sentire le motivazioni di chi voterà contro.

Parlando invece in termini di investimenti per la difesa e mettendoli sullo stesso piano della public diplomacy, qual è il suo pensiero?

Sulla public diplomacy quasi come componente del bilancio della difesa, com’è stato fatto oggi, sono un po’ scettico. Perché parlando di bilancio della difesa è stato detto: dovremmo spendere di più in public diplomacy. A differenza della Russia, ad esempio, che investe in attività di comunicazione come Russia Today, nel mondo occidentale abbiamo un’opinione pubblica troppo sofisticata per pensare che possa semplicemente indottrinata con la public diplomacy. In Russia la Duma ha votato sull’intervento in Siria in due ore con un risultato di 162 a 0. In qualsiasi parlamento europeo o nel congresso americano, una cosa così non succederebbe mai. Dobbiamo invece ricostruire una narrativa sulla sicurezza. E’ un problema europeo più che americano. La situazione di sicurezza in cui abbiamo vissuto per una ventina d’anni dall’inizio degli anni ‘90 alle prime incrinature da est e da sud nei primi anni 2000, non esiste più. Le incrinature sono diventate crepacci. L’Europa ne è proprio in mezzo e ha assoluto bisogno d’investire in sicurezza. È necessario sviluppare una cultura di difesa e sicurezza che oggi manca.

In che senso?

L’esempio più significativo è quello della Siria e dei rifugiati, con il dibattito accesosi in agosto con l’apertura della rotta balcanica. Il dibattito si è concentrato su cosa fare con gli immigrati: accoglierli, respingerli, costruire un muro… Così facendo abbiamo parlato solo di cura degli effetti e non di cura della causa. Ci sono quattro milioni di rifugiati siriani fra Turchia, Giordania e Libano. Circa otto milioni di sfollati che hanno lasciato le loro case per cercare zone interne del Paese più sicure da vivere. La decisione presa da Angela Merkel ha dato una sveglia umanitaria e di civiltà all’Europa sui rifugiati, ma bisogna anche pensare a come risolvere il problema della Siria, da dove vengono. Continueranno a venire finché la guerra in Siria continua. O si affrontano le cause o il problema diventa strutturale. Crisi come Siria – o Libia – richiedono anche la disponibilità di strumenti militari adeguati. Per la nostra sicurezza.

Queste crisi potrebbero aiutare l’Europa ad avere una difesa comune?

L’Europa ha chiaramente bisogno di rinforzare le sue capacità di difesa, ma deve cercare di farlo all’interno del contesto Nato. Con i bilanci militari di oggi all’osso, pensare di costruire una separata difesa europea è illusorio, è una fuga in avanti.

Unire i bilanci non potrebbe essere d’aiuto?

È necessario fare quello che l’Ue ha già cominciato a fare: standardizzare quanto più possibile gli investimenti, fare in modo che in Europa si usino gli stessi mezzi. Chiaramente questo richiede una certa divisione del lavoro tra industrie.

Qui come si inserisce la relazione con gli Stati Uniti?

In futuro avremo bisogno sempre delle capacità americane, in molti campi. Ma ora – come non succedeva da decenni – gli americani chiedono all’Europa di assumersi maggiori responsabilità e di fare di più. Non sono disposti a fornire mezzi ogni volta che c’è un’operazione di piccole dimensioni, che richiede strumentazione abbastanza limitata. Il momento è favorevole alla crescita di ruolo dell’Europa, ma bisogna partire dalle capacità e dai mezzi, non dalle istituzioni e dai comandi.

E il rapporto con la Nato?

Mentre in passato il rafforzamento della difesa europea poteva fare temere un allontanamento dagli Stati Uniti, con la prospettiva di un sistema alternativo alla Nato, oggi potenziare la capacità di difesa europea viene visto anche dagli americani come un rafforzamento dell’Alleanza. C’è più bisogno gli uni degli altri.

Quindi in un contesto globale le relazioni transatlantiche restano centrali?

Assolutamente sì.

Sia a livello di difesa che di cooperazione industriale?

A livello industriale ci sarà sempre un misto tra cooperazione e concorrenza che però richiede dimensione.

Come nel caso dell’adesione al progetto Meads e dell’acquisto degli F35?

Il progetto Meads è un progetto essenzialmente americano a cui aderiscono i Paesi europei come Italia e Germania, con importanti contributi anche a livello industriale. Nessuno di questi progetti, come anche gli F35, si potrebbe realizzare senza una forte cooperazione fra Stati. Gli Usa potrebbero anche far da soli. Italia, Francia, Germania, Regno Unito sicuramente no. Meads offre la possibilità a Paesi come l’Italia di partecipare insieme ad altri Paesi europei a un programma che sviluppa capacità tecnologiche militari molto avanzate, come appunto la difesa aerea.

Perché abbiamo bisogno degli F35?

Come detto dal generale Pasquale Preziosa, le capacità militari, come tutte le capacità tecnologiche, hanno bisogno di un continuo rinnovamento. L’F35 è un velivolo di nuova generazione. Se l’Italia vuole continuare a operare con i suoi alleati, impegnarsi in missioni anche pericolose, contribuire alla pace e alla sicurezza internazionale ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, la difesa nazionale e Nato, come ha sempre fatto, ha bisogno di mezzi che abbiano le stesse capacità degli altri e siano all’altezza delle minacce – da sud, da est, da ovunque esse vengano – che non sono sicuramente in calo, anzi…

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