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Lo sapete che il capo economista della Bce dice che l’euro non funziona?

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi

Più che una notizia, sembrava uno scherzo. “L’euro non funziona, parola del capo economista della Bce”: così il 2 ottobre il sito Wall Street Italia titolava un breve articolo in cui si spiegava che Peter Praet, chief economist della Banca centrale europea, nel corso di una conferenza in Germania, aveva spiegato che, da quando è stata introdotta la moneta unica, l’economia dell’area euro è andata di male in peggio. Tesi suffragata da una serie di grafici dettagliati, in cui si confrontano Usa ed Europa, e dove quest’ultima è perdente su tutta la linea.

LE INEVITABILI DOMANDE 

E’ mai possibile che un dirigente di primo piano della Bce, addirittura il capo economista, disegni un quadro così negativo dell’euro? E’ mai possibile che lo faccia mentre Mario Draghi, numero uno della Bce, ha appena sostenuto davanti al Parlamento europeo che “la ripresa procede in modo graduale”, grazie anche al quantitative easing da 60 miliardi al mese? Sembrava logico aspettarsi una smentita, che però non è arrivata. E questo è davvero strano.

CHI PARLA

Peter Praet, 66 anni, economista belga, non è un avversario di Draghi dentro la Bce, come viene invece considerato Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Anzi, è stato proprio Draghi a nominarlo capo economista il 3 gennaio 2012, preferendolo ad altri candidati più quotati, come il tedesco Jorge Asmussen e il francese Benoit Coeré. Non solo: Draghi è ormai nella storia dell’economia grazie al suo celebre “whatever it takes” in difesa dell’euro. Eppure Praet sostiene che l’euro è stato un fallimento, e non lo dice in privato, nel chiuso di una stanza, ma in pubblico. E la sua conferenza in Germania, davanti alla BVI Asset Management, oltre che da Wall Street Italia, è stata raccontata per filo e per segno dal sito Wolf Street, che pubblica i grafici assai eloquenti, basati su dati macroeconomici, con i quali Praet ha inteso dimostrare l’impatto negativo dell’euro sull’economia europea.

I GRAFICI, LA SINTESI

Le aspettative a cinque anni di crescita dell’economia europea sono continuamente diminuite da quando è stata introdotta la moneta unica, scendendo da una crescita del 2,7% nel 2001 all’attuale 1,4%. Tra le cause, Praet sottolinea il continuo decremento del livello di produttività, che ora è più bassa di quella del 2007 e registra uno scarto quasi incolmabile rispetto alla produttività Usa. Il grafico relativo è impressionante: fatta eguale a 100 la produttività del 1995, in venti anni la curva Usa è salita a 120, mentre l’eurozona è rimasta ferma a quota 105. Un gap, sostiene Praet, dovuto a vari fattori, ma principalmente al fatto che, nonostante l’abbondante liquidità monetaria a costo zero, le imprese europee, con l’eccezione della Germania, non investono abbastanza con l’obiettivo di una maggiore produttività, o non investono affatto. Non solo. Anche i prestiti delle banche alle imprese, crollati nel 2008 quando iniziò la crisi finanziaria, non si sono ancora ripresi, e stentano perfino in Germania, nonostante i 60 miliardi mensili del quantitative easing della Bce.

LA DISOCCUPAZIONE (ANCHE FRANCESE)

Di conseguenza, spiegano i grafici di Praet, la disoccupazione è cresciuta in tutta l’Europa, con picchi del 22% in Spagna e del 25% in Grecia. Soltanto pochi Paesi (Germania, Austria, Lussemburgo) hanno tassi di disoccupazione molto bassi, che incidono sulla media europea, riducendola al 10,5% (la stessa della Francia), che è pur sempre un dato a due cifre: “an unmitigated fiasco”, commenta Praet, visto che Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Irlanda continuano ad avere una disoccupazione superiore alla media Ue, e dati ben peggiori in quella giovanile.

 DETTAGLIO INTERESSANTE

Nell’analisi di Praet, colpisce l’enfasi posta sull’elevata disoccupazione. Per statuto, la Bce, a differenza della Fed Usa, ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, che dovrebbero oscillare intorno al 2%, e non dovrebbe porsi il problema della piena occupazione, che è invece un obiettivo primario per la Fed Usa. Nelle sue interviste, il tedesco Weidmann non manca mai di ribadire che l’occupazione è un problema di cui devono occuparsi i governi, e non la Bce. Eppure Praet, con il suo intervento, fa capire che la Bce di Draghi vorrebbe dare peso anche alla disoccupazione per calibrare i suoi interventi, in linea più con la dottrina keynesiana studiata in gioventù a Roma che non con le tesi tedesche sull’austerità. Una novità doppiamente interessante se si considera che il capo economista della Bce, per dirlo,  ha scelto una conferenza in Germania.

QE AL RADDOPPIO?

Così, mentre Weidmann comincia a tirare il freno sul quantitative easing, e rimprovera a Draghi una politica troppo espansiva, che rischia di indebolire la spinta riformista dei governi nazionali (intervista recente alla Suddeutsche Zeitung), sul fronte opposto c’è chi spinge per estendere nel tempo l’attuale politica della Bce.  Tanto che Standard & Poors si dice favorevole all’ipotesi di raddoppiare l’importo del quantitative easing, portandolo da 1,2 a 2,4 trilioni di euro, estendendo i 60 miliardi mensili oltre il termine previsto all’inizio (settembre 2016) fino a metà del 2018. Il tutto nella speranza che il cavallo cominci a bere, gli investimenti salgano e la disoccupazione scenda. Altrimenti, il fallimento dell’euro non sarà solo un tema per dotti convegni, ma una tragica realtà.


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