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Luci e ombre della Legge di Stabilità

E adesso che dirà Stefano Fassina? Perché si lamenta Susanna Camusso? E Vincenzo Visco, a parte la questione dei contanti altra tempesta da chiacchiericcio tv? Matteo Renzi ha presentato una legge finanziaria che il Sole 24 Ore ha definito “espansiva”, anche se i rigoristi parlano di “spendi e spandi”, perché le uscite sono certe, le entrate incerte. La chiamano Legge di stabilità, in realtà non appare molto stabile.

La chiave di lettura delle slide propagandistiche illustrate dal presidente del Consiglio è in alcune tabelle che non sono state mostrate. La prima dice che l’indebitamento netto continuerà a crescere fino al 2018, anche se a ritmi inferiori: 2,2 l’anno prossimo, 1,1 nel 2017, per arrivare a 0,2, così che il pareggio di bilancio potrà essere raggiunto l’anno successivo.

Naturalmente se nulla cambia e in quel nulla ci sono soprattutto gli interessi. La seconda tabella infatti mostra che secondo il governo gli interessi sul debito rispetto al prodotto lordo saranno pari a 4,3% nel 2016 per mantenessi al 4,1% nei due anni successivi. Affinché ciò avvenga la Bce non deve modificare la propria politica monetaria nemmeno quando la Federal Reserve aumenterà i tassi.

Può darsi che il ministro Padoan abbia ricevuto una assicurazione in tal senso da Mario Draghi e può darsi che Draghi sia in grado di determinare i tassi a medio-lungo termine che secondo la teoria e la prassi economica sono determinati dal mercato. Tutto è possibile, ma in base al buon senso, sembra improbabile.

Terza variabile, collegata alle prime due, è la crescita. Renzi dice che saremo stupiti dagli effetti speciali, perché quel che conta è l’accelerazione. Resta il fatto che il pil l’anno prossimo aumenterà dell’1,3% (stime ottimistiche del Fmi) sotto la media della zona euro (1,5%).

L’unica certezza è che la manovra di bilancio per il 2016 è basata fondamentalmente su un aumento del disavanzo pubblico. Ma il 2,2% indicato dal governo sconta un via libera dell’Unione europea che ancora non c’è. Un altro 0,2% di deficit, quello che dovrebbe consentire l’avvio di una riduzione delle imposte sui redditi, è appeso a un nuovo “negoziato a muso duro”, insomma un altro dei tira e molla defatigante con Bruxelles. Ciò vuol dire che la legge finanziaria si posa su un territorio scivoloso se non proprio sulla sabbia.

Il governo vanta, giustamente, di aver evitato la tagliola fiscale chiamata clausola di salvaguardia (aumento dell’Iva e delle imposte indirette per 16 miliardi). In realtà, la rinvia di un altro anno e nel 2017 diventerà di 25 miliardi.

Dunque, deficit spending. Keynesiani di tutta Italia, godete. In realtà il keynesismo tricolore appare a testa in giù perché la regola aurea della “cassetta di attrezzi” è di aumentare il disavanzo pubblico per contrastare la recessione e pareggiare i conti con la ripresa, come fanno gli americani che restano i seguaci più ortodossi (anche negli anni di Reagan il disavanzo crebbe fino al 1983 quando cominciò il nuovo ciclo di sviluppo).

In Italia, invece, avviene il contrario. Colpa dell’austerità, colpa della Merkel, della Ue? Eppure a Spagna, Portogallo e alla stessa Francia è stato concesso di applicare un keynesismo di scuola. Adesso il loro problema è rientrare, visto che la recessione è finita. L’Italia, dunque, deve prendersela con se stessa, cioè con la sua incapacità di tenere sotto controllo il debito. Incapacità dimostrata durante la recessione e anche dopo.

La colpa è della crescita troppo bassa, la cui colpa è della scarsa produttività del sistema, la cui colpa è delle rigidità persistenti, la cui colpa è del potere che consorterie e corporazioni ancora detengono e così via con la catena delle colpe che porta a una colpa più grande, la cui manifestazione è nella morte della spending review.

Renzi non ci ha mai creduto, tanto è vero che si è liberato di Carlo Cottarelli e ha organizzato una manfrina a Palazzo Chigi mobilitando il fido Yoram Gutgeld e il dotto Roberto Perotti, economista bocconiano, per dire che saranno recuperati 5 miliardi e rotti, la metà di quelli promessi in primavera da Padoan che già aveva tagliato le fantasiose speranze di Cottarelli.

Non che fossero la panacea. Aveva ragione Giulio Tremonti: l’unico modo di ridurre la spesa pubblica è usare la falce. Il cacciavite, il bisturi, le forbicine, sono strumenti inefficaci. Ma lo stesso Tremonti per aver tagliato di un punto la spesa sul prodotto lordo nel 2010, fu messo alla berlina dal suo stesso partito e poi lapidato dai keynesiani alla Brunetta che volevano più spesa e più deficit (la chiamarono una scossa o una frustata), lanciandosi così, tra l’inverno e la primavera del 2011, sul piano inclinato. Una storia che il prolifico Alan Friedman, ultimo biografo ufficiale di Berlusconi, trascura. E non a caso. Forse c’è stato un intrigo internazionale in quel fatidico anno in cui l’Italia finì in bancarotta, ma proprio il Cavaliere ci ha messo del suo.

Il problema è che l’Italia non è in grado di ridurre la spesa eccessiva perché lì si concentrano tutti i roditori: cioè la classe politica e chi la critica perché vuole una fetta più grande della torta, dai sindacati al patronat.

Oggi la situazione è migliore. Tuttavia il modello italiano resta lo stesso e spendere in deficit con un livello di debito tanto alto è la premessa di guai futuri. Draghi ha già avvertito l’Italia un mese fa. Chissà cosa dirà adesso a Renzi. Lo inviterà a Città della Pieve per il week end di Ognissanti, quando tutte le streghe si radunano per il sabba?

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