Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Diego Gabutti apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Dopo aver tifato per le varie fratellanze musulmane ai tempi della «primavera araba», dopo aver spianato la strada al Califfato abbandonando il tiranno siriano (che era in quel momento, e continua a essere, il minore dei mali maggiori) alla piazza jihadista e dopo aver tratto da un meritato isolamento gli ayatollah atomici autorizzandoli ad arricchire l’uranio, Barack Obama è riuscito anche in un altro miracolo: ha trasformato Vladimir Putin (il karateka del Cremlino, l’amico del Caimano, l’uomo che cammina ancheggiando come gli «apache» delle banlieu parigine negli sketch di Carlo Dapporto) in un leader planetario, l’uomo alla guida della coalizione anti Isis.
Confinato nella sua ristretta area geopolitica, dove poteva fare il prepotente soltanto con i più deboli, mostrando i denti (e i carri armati) giusto agli abitanti d’Ucraina e di Crimea, che invano hanno chiamato l’Europa al soccorso quando sono state aggredite dai teppisti postsovietici, Putin è diventato d’un tratto il castigamatti dei jihadisti. Ieri era un paria, con un solo amico al mondo: Silvio Berlusconi, l’ultima ruota del carro internazionale. Oggi, per l’inettitudine della Casa Bianca, che continua a eludere le sue responsabilità internazionali, è diventato il generale che guiderà l’Occidente (l’Occidente!) alla vittoria contro i tagliagole.
Obama, che lo ha incontrato a New York, gli ha stretto la mano sorridendo a denti stretti, come si notava nelle riprese televisive, dove il presidente americano non appariva esattamente di buon umore. Era dal 1991 (dai tempi della prima guerra del Golfo, quando c’erano ancora due superpotenze) che la Russia era fuori dai giochi. C’era una ragione per questo: ammainata la bandiera rossa, trasformata in Federazione russa, continuava a essere un khanato asiatico, come sotto gli zar e i bolscevichi. Non era più un paese socialista, e tanto meno un impero socialista, ma non era ancora una democrazia, né sembrava intenzionata a diventarlo.
Un tempo l’Urss aveva tentato di piegare l’Europa puntando i missili SS-20 su tutte le capitali. Adesso ci provava minacciando di chiudere i rubinetti del gas. Era rimasta, cioè, una nazione bullista. Ogni volta che Putin tentava una mossa, per chiamarla così, sulla scacchiera internazionale, ieri in Cecenia, oggi in Ucraina, s’alzava a condannarlo il coro unanime delle nazioni civili. Putin, secondo tutti gli osservatori, compresi i più timidi, è l’ombra che si profila dietro gli omicidi dei giornalisti e dietro gli avvelenamenti da plutonio 14 dei dissidenti. E ora tutti lo applaudono, mentre Obama è sempre più ininfluente, e sempre più contestato, sia in patria che fuori.
Non promette neanche più miracoli. Se all’inizio, come tutti i leader carismatici americani, aveva «fatto un sogno», adesso non ha più una visione da trasmettere all’America e al mondo. Scarse le riforme in patria, ancora più scarsa la presenza dell’amministrazione Obama nel mondo. Gli zig zag della sua politica estera, un giorno «no», un giorno «sì», un giorno «nì» o forse, hanno paralizzato ogni iniziativa occidentale e aperto un varco all’attivismo della Federazione russa e del suo leader, l’uccisore (per chi ci crede) di tigri bianche del Cremlino. Persino Israele oggi cerca un contatto con Mosca. Obama è diventato il Matteo Renzi, se non addirittura l’Ignazio Marino, di Washington, DC.