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Vi spiego perché Regno Unito e Cina amoreggiano

Si è conclusa ieri la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping nel Regno Unito. E’ stato accolto con tutti gli onori, “srotolando il più rosso dei tappeti rossi”.

I rapporti tra Uk e Cina sono ad una svolta talmente evidente e profonda da aver suscitato più d’una perplessità: c’è chi ha sollevato con forza il tema della democrazia politica e del rispetto dei diritti umani da parte di Pechino e chi ha voluto ricordare che spetta all’lndia, ex colonia britannica, e non alla Cina di essere riconosciuta come la più grande democrazia del mondo.

Il Presidente cinese ha avuto l’onore di rivolgersi alle Camere del Parlamento riunite nella Royal Gallery di Westminster, di essere ospitato a Buckingam Palace per un banchetto in suo onore e, all’arrivo, dopo la tradizionale rassegna del picchetto armato, di prendere posto insieme alla moglie accanto alla regina Elisanetta ed al principe di Edimburgo nella carrozza reale scortata dalle guardie a cavallo. La coreografia del cerimoniale è stata definita maestosa: un termine non casuale. Niente a che vedere con le visite ufficiali del Presidente americano Barak Obama nel 2011 e della Cancelliera tedesca Angela Merkel nel febbraio scorso: per loro, l’omaggio era una doverosa e rispettosa routine. Con loro, tutto si muoveva nel solco di rapporti consueti, e così i loro discorsi di fronte al Parlamento inglese non hanno aggiunto nulla di nuovo alla Storia dei rispettivi Paesi. Stavolta, il Regno Unito e la Cina sono di fronte ad un futuro da scrivere che è un tutt’uno con la loro Storia. Se è vero che la Magna Charta ha più di ottocento anni e che l’orgoglio di quel passato è reso plastico dal fasto di Westminster, il Presidente cinese ha rivendicato alla storia del suo Paese altrettante profonde radici di civiltà come quella della codificazione delle leggi risalente a duemila anni a.C. La Repubblica popolare odierna, ed il comunismo attuale, non sarebbero altro che una rinnovata forma del medesimo Impero. 

La visita apre necessariamente una profonda riflessione prospettica oltre che nuova fase storica nelle relazioni tra i due Paesi. Per Londra, al di là della inossidabile alleanza Atlantica, c’è un problema di posizionamento internazionale: l’Europa è scivolata, per un gioco di forza, sotto l’influenza della Germania. Dopo il 2008, per via delle successive ondate di crisi economica e finanziaria all’interno dell’Unione, il peso dell’euro ed il timore di una sua implosione, hanno assunto una centralità assoluta. Tutto il dibattito, tutte le energie, tutte le preoccupazioni si sono concentrate sulle politiche fiscali da imporre ai Paesi aderenti alla moneta unica; sulla creazione di un sistema di aiuti per eventuali nuovi difficoltà; sulla vigilanza bancaria ed i relativi meccanismi per la risoluzione delle crisi; sui meccanismi idonei a dare nuovo impulso alla crescita economica. Dal Fiscal Compact all’Esm, dalla Banking Union al Piano Junker, la Germania ha dominato la strategia europea per salvare l’euro, che considera come “sua” moneta, dalla dissoluzione. Inutile parlare della lunga e penosa gestazione del Qe da parte della Bce: la Banca d’Inghilterra provvide immediatamente ed autonomamente all’allentamento quantitativo, senza dover attendere né contrattare alcunché. D’altra parte, le prospettive di una sovranità condivisa a livello europeo, come le ipotesi di una politica di bilancio unica, sono presupposti necessari per la stabilità dell’euro e invece ci ritroviamo in una unione politica asservita ad una moneta il cui statuto è tanto discutibile quanto indiscusso. L’identificazione assoluta dei problemi dell’euro con quelli dell’Europa è stata, e continua ad essere,  la ragione del processo di allontanamento oggettivo di Londra da Bruxelles.

Il rapporto tra Inghilterra e Cina si colloca quindi in un contesto in cui la prima deve ridefinire le sue relazioni internazionali.  L’appartenenza all’Ue è un dato politicamente marginale, se non addirittura irrilevante dal punto di vista economico e finanziario, ma è parimenti inconcludente l’ipotesi di costruire un ruolo unificante per i Paesi non aderenti all’euro: ciò contrasta con il ruolo decisivo che le politiche monetarie hanno assunto dopo la crisi. Se le aree vaste sono dominate dalle monete, l’Inghilterra deve individuare un nuovo destino al di là dell’Europa: per sé, per la sterlina e soprattutto per la City.
Anche in Cina, gli anni successivi alla crisi del 2008 hanno segnato un cambiamento epocale: è stato necessario riassorbire gli squilibri globali tra i paesi in disavanzo strutturale e quelli in avanzo. Ciò implica un non facile, né immediato, ribaltamento della crescita mercantilistica, dell’economia -trainata dalla domanda estera- e dallo sviluppo derivante dalla dinamica autonoma interna. Ma ancor più pressante è divenuto il problema della convertibilità dello yuan sul mercato dei capitali: non c’è in ballo solo la questione dello status ufficiale come moneta di riserva nell’ambito del Fmi, ma l’esigenza di trovare approdo stabile al sempre nuovo surplus estero ed ai capitali fin qui accumulati. Il sistema finanziario cinese nel suo interno, non può assicurare la stabilità di altrettanti asset: si rischiano bolle in continuazione in investimenti produttivi, immobiliari e azionari. Anche per lo yuan, come per la sterlina, si apre un periodo di transizione.

Le economie dei due Paesi si presentano complementari: il Regno Unito vanta una tradizione plurisecolare nella gestione della moneta e della finanza globale, ed ha una industria finanziaria comparabile solo con quella statunitense, che procura un saldo estero attivo per 80 miliardi di euro annui. La Cina ha un enorme apparato produttivo nel settore manifatturiero, da cui deriva un attivo commerciale comparabile al mondo solo con quello della Germania.
Il Presidente cinese, parlando a Westminster, ha sottolineato che: “E’ giusto dire che la Cina e il Regno Unito sono sempre più interdipendenti e stanno diventando una comunità di interessi condivisi”. La Cina ha interesse ad investire all’estero, così come Uk ha bisogno di attrarre capitali: un pacchetto di iniziative, del valore di 30 miliardi di sterline, è già stato messo sul tavolo. La Cina, a sua volta, ha necessità di una infrastruttura finanziaria globale: le Banche centrali di Cina ed Inghilterra hanno così annunciato di aver rinnovato l’accordo di currency swap, aumentandolo da 200 a 350 miliardi di yuan. Capitali, investimenti e monete si intrecciano.

Forse c’è dell’altro nei rapporti tra Regno Unito e Cina. Magari una riedizione, mutatis mutandis, della special relationship stretta negli anni ’50 tra gli Usa e l’Arabia Saudita: oltre ad avere interessi comuni sul piano economico e finanziario, l’America si offriva anche da sponda nei confronti della influenza sovietica. Di certo, se la Cina non ci sta ad essere “circondata” insieme alla Russia dagli accordi transpacifici e transatlantici voluti da Washington, la City, con i capitali cinesi, ha l’occasione di sfidare nuovamente Wall Street. Di converso, la Cina non ha alcun interesse a che l’Europa e soprattutto l’euro implodano: si tornerebbe alla dominanza globale degli Usa e del dollaro.

Per questo, Xi Jinping ha sollecitato il Regno Unito a non abbandonare l’Unione Europea, ed anzi, a farsi promotrice di più strette relazioni di questa con la Cina: geniale, dà con una mano e prende con due. Blocchi, imperi, alleanze e contromisure, la Storia continua.

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