LA DOMANDA
Negli ultimi decenni la domanda mondiale di petrolio ha evidenziato un trend di leggera crescita: a livello globale infatti il calo dei consumi legato alle maggiori efficienze dei trasporti su strada, via mare e via aerea, è stato infatti compensato dall’esplosione dei consumi nei mercati emergenti. L’attuale domanda mondiale è pari a circa 93 milioni di barili al giorno, mentre il settore petrolifero deve aggiungere ogni anno l’equivalente di circa 6 milioni di barili al giorno per compensare i cali di produzione dei giacimenti esistenti. Dopo la contrazione a livello globale nel 2014, soprattutto in Asia, da allora la domanda è aumentata, superando addirittura le previsioni degli economisti nonostante il rallentamento della Cina. Ciò è riconducibile soprattutto al forte aumento proveniente dagli Stati Uniti, ai primi segnali di crescita in Europa e al continuo incremento dei consumi di petrolio nei mercati emergenti. Tuttavia, i proventi inattesi legati al basso prezzo del petrolio sembrano essere stati accantonati piuttosto che spesi, contenendo le prospettive dello scenario economico.
L’OFFERTA
L’offerta mondiale di petrolio è da sempre il risultato di un delicato equilibrio tra la produzione dei Paesi appartenenti all’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), la produzione russa e quella di altre nazioni minori, a cui va aggiunta la produzione delle grandi multinazionali petrolifere.
Negli anni 2000 la crescita della domanda proveniente dall’Asia ha fatto salire il prezzo del petrolio, stimolando gli investimenti e l’attività di esplorazione in tutto il mondo, anche nel comparto delle sabbie bituminose. I bassi tassi di interesse a livello globale hanno inoltre consentito alle compagnie petrolifere, di grandi e piccole dimensioni, di disporre del capitale azionario e di debito per finanziare degli investimenti, concentrati sempre più spesso in acque più profonde e aree più ostili come l’Artico.
Nel 2014, quando la domanda (e quindi il prezzo) del petrolio sono rapidamente diminuiti, i mercati si aspettavano dei tagli nella produzione, soprattutto da parte dell’OPEC, ma ciò non si è verificato. In vista di una perdita di quote di mercato, l’Arabia Saudita decise di aumentare la produzione in un mercato dove la domanda era già debole, con l’effetto di spingere i prezzi ancora più in basso, nonostante molti altri produttori – dall’Angola al Venezuela – stessero invece riducendo l’offerta.
In questo scenario si inserisce la storia di un incredibile successo americano. Negli Stati Uniti la produzione di shale oil (olio di scisto) è aumentata moltissimo negli ultimi dieci anni, grazie ai progressi tecnologici e alla disponibilità di capitale a basso costo, che hanno favorito la rinascita dell’industria petrolifera americana, riportando la produzione statunitense ai livelli degli anni Settanta. In una prospettiva globale, la crescita della produzione USA è stata inoltre il vero e proprio “driver” dell’offerta di petrolio negli ultimi cinque anni, quando il resto dell’industria petrolifera faceva fatica a trovare o portare a termine nuovi progetti, per esempio il gigantesco giacimento Kashagan in Kazakstan. Grazie al facile accesso al credito gli Stati Uniti hanno registrato un boom degli investimenti e si è diffusa l’idea che il Paese potesse addirittura diventare un esportatore di petrolio. Negli ultimi anni quindi l’aumento della produzione negli Stati Uniti e in Arabia Saudita ha quindi colmato il gap produttivo legato all’esaurimento dei giacimenti esistenti.
INVESTIMENTI E SPESE IN CONTO CAPITALE (CAPEX)
Negli ultimi dieci anni il capex dell’industria mineraria e petrolifera ha registrato un boom a seguito della crescita vertiginosa dell’economia cinese. Sono stati pianificati progetti sempre più imponenti grazie alle condizioni di credito favorevoli e alle aspettative elevate: gli investimenti nel settore delle risorse naturali sono arrivati a rappresentare il 60% del totale delle spese in conto capitale globali, con effetti importanti per numerose economie, dal Brasile all’Australia.
La battuta d’arresto subita dai prezzi di tutte le commodity ha messo in discussione le decisioni di aumentare gli investimenti e l’offerta, e la necessità di cambiamenti strategici da parte delle aziende, dato che i cashflow non saranno più elevati come previsto. Questi sviluppi hanno, e continueranno ad avere, importanti implicazioni per le economie emergenti legate alle materie prime, che hanno fortemente beneficiato del boom cinese. È nostra convinzione che la situazione del petrolio sia attualmente molto diversa rispetto a quella della maggior parte delle altre materie prime industriali: a differenza ad esempio di carbone e ferro, che saranno sempre caratterizzate da forti eccessi di capacità produttiva, per il petrolio potranno sempre verificarsi riduzioni dell’offerta.
LA REAZIONE DELLE AZIENDE
Le società minerarie e petrolifere hanno reagito in modo simile, tagliando gli investimenti fissi, riducendo aggressivamente i costi operativi e bloccando quasi del tutto le nuove attività di esplorazione – cosa che attualmente, a causa del crollo delle entrate dello Stato, stanno facendo persino le compagnie petrolifere nazionali dei Paesi dell’OPEC, compresa l’Arabia Saudita.
Ovviamente i tagli aggressivi nelle spese per investimenti hanno impattato negativamente sulle prospettive delle società di servizi petroliferi (oil services), che in molti casi hanno visto scendere le proprie quotazioni in Borsa. Le riduzioni nella spesa per investimenti incidono quindi sulla quantità di petrolio che potrà essere immessa sul mercato in futuro.
Il calo dei prezzi del greggio sta iniziando ad intaccare la volontà dei mercati dei capitali di finanziare lo shale oil USA, con notevoli conseguenze sui livelli di produzione. Questo perché, molto semplicemente, i pozzi di shale oil hanno tassi di declino particolarmente elevati nel primo anno di produzione (dieci volte superiori alla media globale). Di conseguenza se si smette di trivellare, dopo un certo periodo di tempo la produzione inizierà a diminuire… e a quanto pare siamo già arrivati a questo punto.
OUTLOOK POSITIVO SUI TITOLI AZIONARI DELLE “BIG OIL”
I titoli delle “Big Oil”, le maggiori compagnie petrolifere, offrono già dividendi superiori al 6% e hanno nettamente sottoperformato i mercati azionari durante la fase di discesa del prezzo del petrolio, nonostante gli investitori in obbligazioni ritengano che i loro titoli siano “soldi sicuri”.
Considerata la sottoperformance, le azioni delle “Big Oil” sono convenienti, offrono rendimenti elevati e sono destinate a beneficiare sia della riduzione delle spese per investimenti, che nel 2016/2017 determinerà un gap dell’offerta e quindi un aumento dei prezzi del petrolio, sia della continua crescita della domanda globale di petrolio, che metterà sotto pressione l’equilibrio tra domanda e offerta nel mercato. E’ opportuno anche notare che, dal punto di vista della gestione del rischio, le azioni delle compagnie petrolifere rappresentano anche una copertura a livello geopolitico contro un possibile peggioramento della situazione in Medio Oriente.