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Perché i dati ci renderanno innovativi. Parla Reimsbach-Kounatze (Ocse)

I Big data e la loro relazione con innovazione e crescita è un tema che ha un peso tale sulle economie mondiali che l’Ocse ne ha fatto il centro del suo ultimo studio, “Data-driven innovation: big data for growth and well-being”, curato da Christian Reimsbach-Kounatze, economista ed analista politico dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Formiche.net ha incontrato ieri pomeriggio Reimsbach-Kounatze nell’aula del Consiglio della Camera di Commercio di Roma.

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Oggi tutti parlano di Big data, ma lei ha insistito su un punto: “Preferisco chiamarli semplicemente dati”. Infatti il report si intitola “innovazione data-driven”. Perché?

Il termine Big data può essere impreciso, può creare confusione. Se sono big dobbiamo chiederci: quanto devono essere grandi questi dati? E gli altri che non sono Big data non contano? Il punto è che viviamo in un’economia pervasa dal dato, di qualunque tipo e natura, strutturato o, sempre più spesso, destrutturato. Ciò che veramente conta e crea innovazione e potenziale crescita è la combinazione tra dati e analytics: è l’analytics che fa la differenza. Questa è quella che definiamo DDI, la data-driven innovation: l’uso dei dati e dell’analytics per migliorare o favorire la creazione di nuovi prodotti, processi, metodi organizzativi e mercati. Il dato che resta non analizzato, non compreso, non sfruttato per stimolare decisioni innovative, non serve a trainare l’economia.

E il dato quanto traina l’economia?

Il nostro report ha calcolato che le aziende che usano i dati per generare innovazione accrescono la loro produttività del 5-10% più velocemente di chi non usa i dati. Lo spostamento delle attività economiche e sociali su Internet e l’avvento della Internet of Things, uniti al radicale abbassamento dei costi per raccogliere, conservare e elaborare dati e all’aumento delle capacità computazionali, fanno sì che l’analisi dei dati sia sempre più un motore dell’innovazione e fonte di crescita per le economie e le società. 

Però lei qui ha sottolineato un altro punto importante: non dobbiamo pensare che questa rivoluzione dei dati, che lei ha anche definito “distruzione creativa”, riguardi solo l’hitech.

E’ stato il filo conduttore della mia presentazione. Non ha senso parlare di aziende digitali pensando, per esempio, alle Internet companies o alle Telco, con l’idea che poi ci siano aziende non digitali. Essere nell’economia digitale e nella data-driven innovation vuol dire che tutte le aziende sono digitali, anche quelle che non siamo abituati a considerare tali, per esempio le aziende agricole, le società finanziarie, le pubbliche amministrazioni. Negli Stati Uniti, sempre più produttori agricoli usano i dati per prendere decisioni mirate sulle fasi di semina e raccolta e, riguardo al settore finanziario, posso solo ricordare che il tasso più alto di specialisti dei dati si trova in Lussemburgo, dove c’è una forte presenza di banche e società del settore finance. Anche il settore sanità o la Pubblica amministrazione fanno parte di questa economia digitale, tanto più che possiedono una quantità di dati enorme. E così via, tutti i settori sono impattati. Questo non vuol dire che realmente tutte le imprese siano entrate nell’era della DDI: il nostro report ha trovato che sono ancora troppo poche le aziende al di fuori del settore Ict che investono in raccolta e analisi dei dati e che stanno modificando i loro processi interni per trarre il massimo vantaggio dalla nuova era dei cosiddetti Big data. Ma devono farlo e i governi devono aiutarle, con un occhio particolare alle piccole e medie imprese che possono trovare più barriere all’accesso alla nuova economia digitale.

Questo proliferare di dati crea però alcuni problemi, anche complessi. Di solito si sottolinea la questione della privacy; lei ha mostrato nella sua presentazione qual è la distribuzione dei server nel mondo, ovvero delle infrastrutture dove fisicamente quei dati sono conservati, e ha sollevato la questione della “ownership”. Come si sciolgono questi nodi?

Chi possiede i dati? Questo è uno dei problemi principali nella nuova economia data-driven. I dati sono di chi li genera, di chi li raccoglie, di chi li sfrutta? Molti sostengono che i dati sono di chi li ha generati, per esempio gli individui, nel caso dei dati personali. Altri hanno fatto notare che il concetto di “ownership” potrebbe non essere pratico, considerata la complessa struttura di assegnazione della proprietà dei dati. Perciò direi che è più appropriato parlare di “controllo”. Nei caso dei dati personali sarà importante garantire agli individui il diritto di controllare i loro dati personali e di poterli anche affidare a un diverso provider se vogliono, ma senza dimenticare che sono le aziende che spesso creano valore nella data-driven economy. Occorre un equilibrio tra esigenze dell’individuo e delle imprese, tra apertura e chiusura del dato: accessibile a tutti o completamente riservato? La quadratura del cerchio si potrebbe trovare nel punto in cui il dato è disponibile finché garantisce benefici economici al maggior numero possibile di persone, ma è protetto nel momento in cui è a rischio la privacy. Quanto alla collocazione geografica dei servizi data-driven (ovvero dove sono ospitati i server), il nostro studio mostra come gli Stati Uniti siano molto più avanti alle altre nazioni sia in termini di numero di siti di cui fanno hosting (420.000) sia in numero di data center (1.250). Questo però non è solo predominio tecnologico, ma dipende anche da fattori economici. In alcuni Paesi, Usa in primis, ma anche Germania, Francia e Uk, che in Europa hanno un buon numero di strutture di colocation di data center e hosting, ci sono le giuste condizioni per la gestione di queste attività. Altri mercati possono essere più inefficienti: per questo molte imprese scelgono per collocare i dati in strutture fuori dal loro Paese, spesso negli Usa, perché ci sono concreti vantaggi sui costi.

ECCO CHI C’ERA AL DIALOGO CON KOUNATZE

Questo ruolo degli Usa fa riflettere anche alla luce della recente decisione della Corte di Giustizia Ue che ha invalidato il Safe Harbor. Lei che ne pensa?

Non commento sulle decisioni della Corte di Giustizia europea ma certo è una sentenza che potrebbe avere un impatto sulle imprese, soprattutto le più piccole che ora dovranno fare i conti con un quadro legale più complesso. Comunque anche qui il dibattito rischia di diventare ozioso: nell’economia digitale tutti i Paesi sono interdipendenti; è vero che i dati nascono con la caratteristica di essere ‘locali’ nel loro utilizzo ma il flusso di dati ormai è sempre più globale. Anzi, abbattere le barriere nazionali al flusso di dati è una delle condizioni per creare innovazione, purché i legittimi interessi alla protezione della privacy individuale e della proprietà intellettuale delle imprese siano rispettati. I governi dovrebbero sostenere meglio gli investimenti nei dati come priorità strategica, compreso il loro riuso e condivisione. Inoltre l’approccio a tutte le tematiche connesse con l’economia dei dati, privacy compresa, deve diventare più dinamico e inclusivo: non riguarda solo la politica o gli esperti, ma tutta la società, e non deve svolgersi a compartimenti stagni ma tutti gli stakeholder si devono confrontare. Per questo la data-driven innovation deve raggiungere i più alti livelli della politica.

Anche l’Italia deve procedere così?

Come per tutti i Paesi direi di monitorare e, laddove appropriato, sostenere, le attività di ricerca e sviluppo nella Internet of Things, che è un abilitatore chiave dell’innovazione data-driven; favorire gli investimenti in knowledge-based capital, dal software ai brevetti; concentrarsi sulle Pmi, che in Italia sono il cuore del sistema produttivo; e, elemento forse ancor più centrale, sostenere un costante sviluppo delle nuove competenze (come i data scientists) necessarie nell’economia data-driven. Non dimentichiamolo: i dati sono la nuova R&D dei sistemi innovativi del 21mo secolo.



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