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Sul Sinodo un film già visto. A quando la prossima puntata?

Mi ero ripromesso che quest’anno non avrei scritto una riga sul Sinodo ordinario sulla famiglia. Meglio attendere la Relatio Synodi e, soprattutto, cosa dirà (e deciderà) il Papa. Per cui farò solo un’eccezione, poi mi ritufferò nella mia quotidianità, ovvero moglie-figli-lavoro-parrocchia-parenti/amici e (di rado) qualche svago, che francamente mi appassiona molto di più della tonnellata di articoli inchieste servizi reportage e interviste sul Sinodo che quotidianamente ci affliggono.

Già il fatto stesso di due Sinodi a distanza di un anno mi era sembrato, e tutt’ora mi sembra eccessivo. Ma davvero c’è tutto questo gran bisogno di discutere e parlare e dialogare e confrontarsi sulla famiglia? Con tanto di questionari inviati a tutte le diocesi del mondo (e non una ma due volte, prima e dopo il Sinodo del 2014) e una cospicua mole di altri documenti che, come spesso accade, lasceranno il tempo che avranno trovato? O è il fatto stesso che si parli e si discuta che conta? E che dire del martellamento quotidiano sulla quella che, e non è certo un caso, viene spacciata dai e sui media come la questione delle questioni, ovvero i divorziati risposati, con in subordine gli omosessuali? Siamo proprio sicuri che siano questi i problemi della Chiesa di oggi? O magari il celibato dei preti o l’ammissione delle donne al sacerdozio?

Suvvia, non scherziamo (tra l’altro, sulla faccenda dei divorziati risposati è stato ampiamente dimostrato – ne parlò per primo George Weigel in un articolo su First Things, in Italia pubblicato dal Foglio – come dietro tutto questo can can si celi in realtà un problema che con la teologia e pastorale c’entra poco, ovvero la necessità della chiesa tedesca – e non è un caso che siano proprio i tedeschi, Kasper in testa, a spingere per la comunione ai divorziati risposati – di far fronte all’emorragia di fedeli, che si traduce in milioni di euro in meno ogni anno). Questa, caso mai, è la rappresentazione della Chiesa che si vuole veicolare all’opinione pubblica per condizionare il dibattito e, quindi, le scelte future. Anche per questo, per dirla tutta, a me di sapere cosa ha detto Tizio nei circoli minori, Caio durante un intervento in plenaria, interessa poco o nulla. E’ lo stesso film andato l’anno scorso, e di cui pure scrissi su questo blog, quando accanto al Sinodo “reale” si impose in modo prepotente un Sinodo “virtuale”, che manu militari e con chirurgica precisione, riuscì a far passare fin nella più remota piega dei canali informativi, il seguente, semplice schemino: a) se oggi tante persone non seguono più gli insegnamenti della chiesa in tema di morale sessuale e famigliare, è perché tali insegnamenti sono percepiti come distanti anni luce dalla sensibilità contemporanea, pesanti e moralistici; b) di fronte a questa situazione la chiesa non deve fare altro che prendere atto e cercare, anziché di riportare le lancette dell’orologio ai bei tempi andati, di andare incontro alle persone cercando di accordare fede e morale con la sensibilità odierna; c) c’è tutta una fronda di conservatori (leggasi: bigotti retrogradi medievali fondamentalisti insensibili e puzzoni) che sta facendo di tutto per ostacolare la spinta aperturista e riformatrice che Papa Francesco – che in questo schemino è sinonimo di misericordia contrapposta all’intransigenza di Ratzinger e Wojtyla – sta cercando faticosamente di portare avanti.

Ecco, rispetto al Sinodo straordinario del 2014, la novità di quest’anno sta forse nella virulenza della campagna mediatica scatenata da quei poteri – in primis le lobby omosessualiste – che, dentro e fuori la Chiesa, vogliono imporre questa precisa rappresentazione, ovvero di una lotta intestina tra i conservatori, cioè i cattivi, da una parte, e Papa Francesco e i progressisti, ovvero i buoni, dall’altra. Campagna in cui, stando alle nostre latitudini, si sono distinti come al solito Corriere e Repubblica. Di esempi di tale offensiva se ne potrebbero fare tanti. A partire dall’ormai famosa (e penosa) intervista di monsignor Charamsa, che il giorno prima dell’inizio del Sinodo ha pensato bene di rivelare al mondo non solo la sua omosessualità, cosa che per il teologo moralista Mauro Cozzoli non sarebbe in sé un problema (sicuro?), ma soprattutto che aveva da anni un compagno, con buona pace del celibato che un prete cattolico è tenuto ad osservare. Naturalmente, secondo lo schemino di cui sopra il giovane monsignore, opportunamente istruito e aiutato dai circoli gay catalani, si è guardato bene dall’ammettere di essere lui in difetto avendo tradito l’osservanza del celibato di cui era a conoscenza prima che si facesse prete. No, nessuna colpa da parte sua (ha voluto anzi puntualizzare, il fine teologo, che lui il celibato non l’ha tradito affatto non avendo mai toccato una donna, che quando l’ho letta non sapevo se ridere o piangere); in questa come in altre situazioni è quell’omofoba della Chiesa che dovrebbe fare mea culpa e battersi il petto. Siamo alle solite. E’ come se uno inizia a giocare a calcio e a un certo punto pianta una grana perché vuole giocare con le mani anziché con i piedi, cosa evidentemente impossibile. Domanda: chi è in difetto, lui o chi ha stabilito le regole del gioco? Nella Chiesa è lo stesso: il celibato sacerdotale è una regola, non ti sta bene? La soluzione è semplice: non ti fai prete. Punto. Invece no. Charamsa, e chissà quanti come lui, prima s’è fatto prete, poi s’è fatto l’amante e un bel giorno che fa? Se ne esce e spara a zero contro la Chiesa, affermando che la soluzione che essa propone per i gay, ovvero l’astinenza totale, “è disumana”, dimenticando quei milioni di sacerdoti che in tutto il mondo e in tutte le epoche hanno vissuto gioiosamente il celibato, senza per questo sentirsi per nulla sminuiti come uomini.

Passano pochi giorni, ed ecco che lo schemino viene di nuovo applicato. Questa volta prendendo spunto dalla lettera firmata da 13 cardinali, nella quale i porporati esprimevano, per altro con toni assolutamente rispettosi, alcune perplessità circa le modalità di svolgimento del Sinodo. In un mondo normale, la notizia sarebbe passata quasi inosservata. Anzi, sarebbe stata una non notizia. Non si capisce infatti che cosa ci sia di strano che un gruppo di cardinali, in apertura di un evento importante per la vita della Chiesa come un Sinodo, senta il bisogno di scrivere al Papa una lettera in cui rappresentare alcuni dubbi e perplessità. Stessimo parlando di un dossier anonimo, recapitato per chissà quali canali, con chissà quali contenuti, la cosa ovviamente sarebbe stata ben diversa. Ma qui si tratta di una lettera, firmata con nome e cognome da 13 cardinali. Dunque un atto assolutamente trasparente. Che però i giornaloni nostrani hanno spacciato come l’ennesima prova del tentativo dei conservatori di bloccare, ostacolare, frenare Papa Francesco. E dagli al complotto, alla fronda, ai retroscena torbidi e all’immancabile rievocazione di Watileaks e delle lotte intestine che, oggi come allora, rischiano di minare e spaccare la Chiesa. Un film che, vale la pena ripeterlo, fa gioco solo a quelli che, dai tempi dell’Humanae Vitae del Beato Paolo VI, hanno stretto un patto diabolico per mondanizzare, e quindi neutralizzare, la presa della Chiesa sul mondo e la società. Avanti con la prossima puntata.


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