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Artissima a Torino: nelle celle si entra da soli.

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Cella n 3475. Nelle celle si entra da soli. Siamo a Torino nell’ex-carcere Le Nuove, ieri prigione oggi museo. Nelle celle si entra da soli. Sulla parete una serie di iridi. Quelle dei giovani detenuti di un altro carcere, quello di Nisida, l’isola delle Flegree in cui Zeus relegò dei briganti dopo averli tramutati in scimmie.
L’iride, dunque. Perché, se ancora oggi Nisida è terra di detenuti, giovani ridotti a scimmie per volontà della società e del suo ordine, l’arte, con i suoi colori, con la sua immaginazione, può offrire un altrove. L’iride rappresenta, infatti, come l’arcobaleno, il ponte tra il bene e il male, tra questo e l’altro mondo. L’altrove dove tutto è più leggero, puro. Dorato. La prospettiva, nuova.
L’iride di quei giovani, essendo specchiato della natura spirituale dell’uomo, intimamente connesso all’indole primigenia di ognuno, non si corrompe. Perfino nel posto più corrotto e deturpante che la peggiore delle società ha saputo darsi: il carcere.
Annalaura di Luggo, artista e fotografa, con il suo obiettivo entra dentro l’anima di questi ragazzi mentre ne raccoglie brevi interviste. Con la speranza che quello che hanno in testa si sposi con la purezza del loro io più nascosto.
Cella n 7345. Nelle celle si entra da soli anche quando si entra in compagnia. Così è, spesso, anche nella vita. Di luogo in luogo, di radice in radice. Col proprio sottovaso sempre sotto braccio. Tutto un sovrapporsi di esperienze e di memoria, di pezzi di identità, di vite fatte a pezzi dalla storia, dalla società, da ordini costituiti che piegano l’uomo. Di cicli d’isteresi.
Per ogni luogo, una lingua. Un pezzo di vita fatta ricordi. D’immagini sfocate. Ma è proprio quando si vede peggio che ci si riconosce. Che si entra in contatto con le proprie radici, con la propria identità.
Siamo fatti di un corpo e di un’anima. Mentre l’estetista nasconde le rughe sul corpo, l’artista si fa paleontologo. E porta fuori tutti gli strati dell’anima, così come si sono sedimentati.
C’è Saiyora che, in russo, ti racconta della sua infanzia uzbeka quando, piccola, finita la scuola, andava a raccogliere il cotone. E che, in americano, ti racconta di come, anni dopo, ha assistito all’infarto delle Torri Gemelle.
C’è il giovane Tamas, ungherese, che da piccolo è vissuto nella sua Ungheria, quella del blocco sovietico, e che, appunto, in ungherese, racconta della sua infanzia, quando il maestro lo redarguiva per tramite di secchiate d’acqua. E che, in tedesco, racconta, poi, di come anni dopo la sua famiglia sia diventata titolare di una ditta di import/export di olio.
Maria Grazia Pontorno, di Castrogiovanni, lì dall’alto di Altesina guarda a Lentini sulle spalle di Gorgia. E la sua ricerca, sul solco del filosofo del “non è”, diventa lo sguardo profondo su “tutto ciò che si sa”. E ne fa il paio. Perché la pluralità di esperienze, le tante lingue, i troppi luoghi arricchiscono ma ad un prezzo elevato. Tanto ti danno e tanto si prendono. E l’artista, quando si collega come una medium alle anime di Saiyora e di Tamas, ne rappresenta le identità nella vertigine di immagini poetiche e drammatiche.
Nella traduzione tecnologica, l’immagine dei batuffoli di cotone trasportati dal vento così come la tensione nucleare tra le particelle di acqua e olio che non vanno mai d’accordo, c’è molto di più di quanto i protagonisti e perfino l’artista stessa abbia voluto raccontare. C’è la difficoltà a far sposare l’umanità con la società. La natura con la cultura. La storia con la tradizione. C’è il pianto sordo di ognuno che dietro l’apparenza quotidiana soffre. Continuamente. Una melanconia a priori.
Ha ragione Andrea Bartoli, da Favara, protagonista della terza installazione di Maria Grazia Pontorno. Lui, a differenza dei giovani Soiyara e Tamas, ha preferito rimanere fermo nel proprio luogo originario. Di non sradicare mai le sue radici, i suoi denti da latte. Ma questo non limita la pluralità dei suoi possibili approdi. Di avere più identità.
Andrea è il Dottor B della novella degli scacchi di Zweig. Lui, il dottor B – guarda caso – è in cella. Ma riesce a uscirne, riesce a farcela, grazie a un libro di scacchi. Anche nella limitatezza di una cella, B trova nell’infinito numero di combinazioni e di strategie che si possono attuare dentro quella scacchiera, la forza per darsi una prospettiva.
Andrea è come Novecento. Perché ogni identità si nutre di universalità e non c’è bisogno di scendere da quella scaletta, perché dentro il Salone del Virginian passa tutta l’umanità. Un ventre di ferro, chiuso è finito. Tant’è.



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