C’è chi lavora per portare soldi in Italia, contribuendo con il suo impegno all’export di beni e servizi per far apprezzare in tutto il mondo il made in Italy, ma c’è anche chi sta lavorando con altrettanto ed ancora maggiore successo per portare all’estero il risparmio degli italiani. Va da sé che non si tratta degli stessi denari, ma di un problema di allocazione delle risorse e di opportunità di investimento: se l’Italia è tornata vincente nella competizione internazionale quando si tratta di commercio, si sta desertificando dal punto di vista degli impieghi di portafoglio. Non solo non attrae capitali esteri, ma esporta quote crescenti del suo risparmio interno.
E’ un tema altamente politico, per via del trend strutturale che sta assumendo, visto che incide negativamente sui processi di crescita dell’economia reale. Non c’è più, sullo sfondo, un problema di sfiducia o peggio il timore per la stabilità del debito pubblico, ma il congiunto operare di tre fenomeni. C’è l’attivismo delle firme straniere che operano nella raccolta del risparmio attraverso fondi di investimento, che erode il tradizionale impiego in depositi bancari ed obbligazioni retail emesse da questi istituti. Conta assai, poi, il venir meno nel giudizio comune del valore dell’investimento immobiliare, colpito senza remore dalla tassazione e dal refrain ambientalista incentrato sul consumo del suolo dovuto ad un modello di espansione edilizia che procede in orizzontale piuttosto che in verticale: è stato travolto il tradizionale modello rappresentato, temporalmente e funzionalmente, dalla accumulazione del risparmio, dall’acquisto della casa e dal pagamento del mutuo contratto a complemento.
Il mercato dei mutui, in ripresa, è prevalentemente sostenuto dalle surroghe. In terzo luogo, si sconta la trasformazione improvvida e mal preparata del nostro sistema bancario, storicamente fondato su aziende di credito abilitate solo al credito commerciale a breve ed in territori limitati. La liberalizzazione del credito, che ha interessato prima il versante della raccolta e poi quello degli impieghi con l’adozione della banca universale, è stata bilanciata dalle aggregazioni, ma senza che queste sviluppassero una adeguata capacità di assistere le piccole e medie imprese nel necessario processo di crescita, capitalizzazione e di trasformazione dell’orizzonte temporale del credito. La banca, infine, ha progressivamente perso il ruolo di fiduciario dell’imprenditore, per trasformarsi dapprima in un partner sempre più esoso e poi una sorta di agente del Fisco.
Gli italiani stanno aumentando i propri investimenti all’estero ad una velocità ben superiore a quella con cui accumulano saldi attivi della bilancia commerciale. Il conto finanziario della bilancia dei pagamenti, che riguarda principalmente gli investimenti diretti e quelli di portafoglio, mostra ormai da due anni un andamento del saldo attivo progressivamente crescente. Sempre più spesso, il saldo finanziario è superiore rispetto a quello del conto corrente, che riguarda invece i movimenti di merci, servizi e redditi.
Già nel 2014 il saldo del conto finanziario è stato positivo, di ben 46 miliardi di euro: di questo ammontare, quindi, il flusso degli investimenti italiani all’estero ha superato quello dei non residenti in Italia. Nello stesso anno, il conto corrente ha mostrato un saldo attivo di 31 miliardi (+49 per merci, -0,5 per servizi, -17 per redditi primari e secondari). Il saldo negativo della componente redditi secondari (che in passato erano classificati come “trasferimenti”) deriva dal fatto che l’Italia paga all’estero, al di là delle rimesse degli immigrati (circa 6 miliardi di euro l’anno), interessi e dividendi per un ammontare ben superiore rispetto a quanto incassa dall’estero allo stesso titolo. Ciò, a sua volta, deriva dal fatto che la posizione finanziaria netta sull’estero dell’Italia è negativa: a giugno scorso, il saldo passivo è stato pari al 26,7% del Pil. Alla fine del primo trimestre, il saldo era di -423 miliardi di euro (Pubbliche amministrazioni -766 miliardi, Banche -265 miliardi e Altri settori +579 miliardi).
Per quanto riguarda i primi sette mesi del 2015, il conto corrente della bilancia dei pagamenti ha segnato un saldo positivo di 14,4 miliardi. Nel conto finanziario, la domanda di titoli di Stato italiani da parte degli investitori esteri ha comportato acquisti netti per 56,7 miliardi e titoli azionari per 16,7 miliardi. Gli italiani, invece, hanno effettuato acquisti netti di titoli esteri di portafoglio per 98 miliardi (di cui circa due terzi in quote di fondi comuni) ed investimenti diretti per 9,7 miliardi di euro.
La Banca d’Italia ha sottolineato in proposito che “l’espansione del comparto del risparmio gestito, in cui i fondi di diritto estero rivestono un ruolo molto rilevante, è dipesa dallo spostamento dei risparmi da titoli di Stato e obbligazioni bancarie retail verso forme di investimento più diversificate. Agli acquisti di titoli hanno contribuito anche le banche italiane, effettuando investimenti per 25,9 miliardi in obbligazioni estere (principalmente titoli pubblici francesi, tedeschi e spagnoli)”. In complesso, nei primi sette mesi dell’anno, gli italiani hanno investito all’estero 11,3 miliardi più di quanto non abbiano fatto gli stranieri in Italia.
Mentre si continua a sostenere la necessità di attrarre investimenti esteri in Italia, non ci si è accorti che è il risparmio italiano a prendere il volo: non per colpa dei cittadini, ma delle scelte nella allocazione che viene fatta dagli intermediari.
Come ulteriore paradosso, va sottolineato che una quota consistente della liquidità immessa dalla Bce con i suoi vari interventi, dalle Tltro al Qe, si sta riversando sempre più all’estero. E’ un fenomeno che è divenuto sempre più vistoso a partire dal luglio del 2014 e che non riguarda solo l’Italia, ma tutti i Paesi GIIPS (Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna) rispetto ai Paesi DNLF (Germania, Olanda, Lussemburgo e Finlandia) nell’ambito del sistema Target 2 che registra i rapporti tra le Banche centrali dell’Eurosistema. Il saldo passivo del nostro Paese nel Target 2, finalmente ridottosi a 130 miliardi di euro nel luglio del 2014 dopo aver toccato il peggior livello con -289 miliardi nell’agosto del 2012, si è nuovamente ampliato fino a raggiungere i -232 miliardi a settembre scorso, con una vistosa accelerazione rispetto a marzo quando era ancora di -163 miliardi. Non c’è un nuovo problema di sfiducia nell’Italia, ma di funzionamento dei mercati. Le rilevazioni del sistema Target 2, che rappresentano un sottoinsieme limitato all’area euro delle relazioni finanziarie con l’estero dei residenti in ciascun Paese, dimostrano una nuova, progressiva, divaricazione tra i due gruppi di Paesi, che sottende un altro, ancora taciuto, fallimento della politica monetaria nel contesto di un’area non ottimale.
Il sistema economico italiano si sta debancarizzando: dai 4.220 miliardi intermediati nel 2012, a luglio scorso è arrivato a 3.951 miliardi (-269 miliardi). La finanziarizzazione prosegue: il patrimonio totale netto dei fondi comuni di diritto italiano e di quelli di diritto estero controllati da intermediari italiani è passato dai 399 miliardi del 2012 ai 596 miliardi del secondo semestre 2015 (+197 miliardi), con un flusso netto di nuova raccolta pari a 147 miliardi.
Ancora più veloce è stata la allocazione degli investimenti di portafoglio all’estero: considerando il totale in azioni, fondi comuni e strumenti di debito, nei 15 mesi che vanno dalla fine del primo trimestre del 2014 a quella del secondo trimestre di quest’anno, le attività italiane all’estero sono passate da 842 a 1.089 miliardi di euro (+247 miliardi). Nello stesso periodo, il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è stato attivo per 40 miliardi. Gli investimenti di portafoglio italiani all’estero sono quindi cresciuti sei volte più velocemente delle risorse nette acquisite con l’export bi beni e servizi e le altre relazioni correnti.
E’ questa la più profonda riforma strutturale che l’economia italiana sta subendo: è diventata esportatrice netta di risparmio, l’ultimo tesoro che ci era rimasto.
C’è un conto che non torna: la competitività internazionale della produzione italiana e la capacità di allocare convenientemente i fattori della produzione, ivi compreso il capitale, è testimoniata dal saldo attivo della bilancia commerciale, ma sta subendo un consistente drenaggio di risparmio.