Ormai che l’asset purchase programme (APP) dell’Eurosistema è entrato in pianta stabile nella nostra esistenza, capisco bene perché molti si chiedano, glissando sugli svantaggi, quali possano essere i vantaggi di questa scelta. Che poi significa, per dirla in soldoni, capire quanto ci abbia guadagnato l’euroarea e soprattutto quanto ci guadagnerà fino al settembre 2016, quando il Qe dovrebbe finire. E mai condizionale fu più d’obbligo.
Sono certo che questo filone di ricerca produrrà vere perle di econometria. Ma intanto la prima che ho trovato è una ricerca della Banca d’Italia, “Domestic and international macroeconomic effects of the Eurosystem expanded asset purchase programme”, elaborata da Pietro Cova, Patrizio Pagano and Massimiliano Pisani.
Come tutti i modelli econometrici che ormai scrivono l’economia del nostro tempo, i risultati dipendono ampiamente dalle premesse. Cosa che viene costantemente ignorata da gran parte delle cronache, che sono interessate al sodo, e quindi al quanto. Col risultato che ci troviamo a discutere di cose che, letteralmente, sono ipotesi di lavoro e sulla quali sarà opportuno, nel corso del nostro discorso economico, sviluppare alcuni approfondimenti.
Per adesso contentiamoci di riportare quello che scrivono gli autori dello studio, che comunque è parecchio istruttivo.
L’avvertenza è che “il lavoro valuta gli effetti macroeconomici degli acquisti di titoli del settore pubblico nell’area dell’euro utilizzando un modello neo-keynesiano di equilibrio generale a cinque aree, calibrato per l’area dell’euro, gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e il ‘resto del mondo’”.
I risultati sono i seguenti: “L’APP determinerebbe un aumento della liquidità, una contestuale riduzione dei rendimenti a lungo termine e un deprezzamento del cambio, che si tradurrebbero in un significativo aumento, superiore al punto percentuale, del PIL e dei prezzi nell’area dell’euro nell’arco dei primi due anni”.
A livello internazionale invece “si registrerebbero effetti espansivi sugli altri paesi, determinati dalle maggiori esportazioni verso l’area dell’euro. Nel complesso, gli spillover sarebbero contenuti verso Stati Uniti, Cina e Giappone; più elevati nel resto del mondo, caratterizzato da una maggiore integrazione commerciale con l’area”. Tali effetti, tuttavia, “nel caso di bassa sostituibilità dei beni scambiati internazionalmente e di ridotto pass-through del tasso di cambio nominale ai prezzi al consumo, l’aumento del PIL nel resto del mondo risulterebbe pari a circa un settimo di quello osservato nell’area; in un’ipotesi alternativa di sostituibilità e pass-through elevati, le variazioni di PIL e inflazione sarebbero negative, ma solo nel primo anno”.
Se però le autorità monetarie esterne all’EZ mantenessero i tassi invariati per contrastare il lieve aumento di inflazione indotto dal QE europeo, ” l’incremento del PIL sarebbe pari a circa un quarto di quello dell’area”. Quindi, paradossalmente, il resto del mondo farebbe bene a non seguire la scia dell’eurozona, se vuole avere un migliore risultato economico.
L’ipotesi incorporata nel modello sviluppato da Bankitalia presuppone che l’effetto implicito di abbassamento dei rendimenti di lungo termine e l’aumento di liquidità indotto dall’APP induca un aumento dei consumi e degli investimenti e quindi la domanda aggregata e di conseguenza l’attività economica. “La misura – scrivono – è particolarmente importante in un contesto dove i tassi a breve termine non possono essere ulteriormente ridotti trovandosi già al livello dello zero“.
L’aumento della domanda aggregata dell’Ez avrebbe effetti positivi anche per gli altri paesi, e in particolare verso coloro che esportano nell’area. Effetti tanto più corposi se le politiche monetarie dei partner commerciali rimarranno accomodative, ossia non alzeranno i tassi in risposta all’APP. Ma fra le avvertenze ve n’è una che vale sottolineare: “E’ cruciale che la politica fiscale non offuschi l’effetto della politica monetaria non convenzionale”. La politica monetaria e quella fiscale camminano a braccetto, come dicevano gli antichi. “Il governo, infatti, può allungare la maturità del debito emettendone a lungo termine e redimendo quello a breve”. E in questo caso l’effetto netto sui tassi di lungo termine dell’APP potrebbe essere assai minore se non nullo.
Detto ciò, il modello calcola un aumento del Pil dell’area dell’1,4% rispetto allo scenario base e dello 0,8% dell’inflazione nell’arco di vigenza del QE, sempre che si verifichino le ipotesi sottostanti, ossia che l’aumento di liquidità e la riduzione dei tassi spingano i cittadini a consumare, le imprese a produrre di più e l’aumento dei margini sulla produttività a investire di più. L’aumento della domanda aggregata produrrà un aumento dell’inflazione e, rimanendo la banca centrale ferma nel suo intento di non alzare i tassi a breve, ne risulterebbe un ulteriore abbassamento dei tassi reali che darà una spinta ulteriore alla domanda aggregata. L’aumento di importazioni che deriverà da questo aumento di domanda, malgrado il ragionevole attendersi del peggioramento delle ragioni di scambio, verrà in parte se non del tutto compensato dalla svalutazione del cambio.
Il modello simula anche l’ipotesi che la banca centrale, anziché tenere i tassi fermi, li innalzi al livello previsto dalla Taylor rule. In tal caso, “non soprende notare che l’effetto dell’APP sul pil sarebbe ridotto”.
Sicché si torna al punto di partenza. Il QE porterà benefici, sempre che il governo non faccia pasticci e la banca centrale tenga i tassi a zero per un tempo sufficiente. Questi benefici sono quantificati nell’ordine del punto percentuale sull’intera area, quindi è facile immaginare che saranno abbastanza diseguali. Dei malefici che potrebbero derivarne, dal QE, il nostro modello non parla. Forse perché non è possibile quantificarli.
Almeno per ora.
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