Nel diritto latino la “damnatio memoriae” (condanna della memoria) era una pena comminata dal Senato agli “hostes”, ai nemici (o considerati tali) di Roma. In età repubblicana essa prevedeva la cancellazione del “praenomen” del condannato da tutte le sue raffigurazioni, e – nei casi più gravi – la “rescissio actorum”, ovvero la totale distruzione di tutte le opere realizzate nell’esercizio della propria carica. In età imperiale colpirà, anche dopo la loro morte, perfino la memoria degli imperatori spodestati o assassinati (tra cui Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo).
Il primo romano a essere colpito dall’istituto fu Marco Antonio per volere di Gaio Ottaviano Augusto, il figlio adottivo di Giulio Cesare che traghettò Roma verso il principato. Una tradizione che sopravvive nel memorabile “Marco Antonio” di William Shakespeare.
L’ultimo (non) romano ad esserne colpito è stato Ignazio Marino, con l’insediamento in Campidoglio del commissario Francesco Paolo Tronca. Cesare fu ucciso (Idi di Marzo, 44 a.C) dai congiurati con ventitrè coltellate. L’ex sindaco della Capitale, per non essere da meno, duemila e cinquantanove anni dopo sostiene di essere stato ucciso (politicamente) da ventisei coltellate (pari al numero dei consiglieri che si sono dimessi). Bruto e Cassio volevano eliminare un presunto tiranno. Marino, al contrario, afferma di essere stato eliminato da un tiranno acclarato, unico mandante: Matteo Renzi. Alla megalomania non c’è limite.
Marx scrisse che la Storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Aveva ragione.