Dopo due anni di tira e molla fra tribunali e Parlamento, la parola passa alla Corte Costituzionale, e quella parola è “orango”. Lo scorso mese di settembre il Senato, a maggioranza, aveva respinto l’autorizzazione per il reato di istigazione all’odio razziale a carico del vice-presidente dell’Aula Calderoli, pur dando il via libera a procedere nei confronti del senatore della Lega per diffamazione. All’origine del contendere le ormai “celebri” dichiarazioni nel corso di un comizio a Treviglio nel luglio del 2013: in quella occasione il senatore della Lega Nord Roberto Calderoli aveva dato senza troppi problemi dell’orango alla allora Ministra per l’integrazione Cécile Kyenge, di origine congolese. In aula si era difeso dicendo che era stata una battuta, una sciocchezza di cui si era pentito, convincendo, peraltro, la maggioranza dei suoi colleghi senatori, molti dei quali del PD, partito della Kyenge, che lo avevano di fatto assolto dall’aggravante razziale, derubricando un evidente insulto di matrice razzista a celia. Un po’ come il celebre voto sulle parentele con qualche governante d’Egitto, insomma.
Ebbene, dopo questo incredibile passaggio parlamentare, di interpretazione creativa di cosa sia razzismo e cosa battute di spirito, il collegio giudicante del tribunale di Bergamo ha preso la balla al balzo e ha trasmesso alla Corte Costituzionale, come richiesto dal pubblico ministero, gli atti relativi al procedimento contro Calderoli. Secondo il tribunale, infatti, la parola “orango” non è in alcun modo attribuibile alla normale dialettica politica e al legittimo conflitto di opinioni che era al tempo in corso tra il rappresentante della Lega e l’ex ministro sui temi dell’immigrazione. Inoltre, viene accolta la richiesta del PM che aveva chiesto che il tribunale sollevasse il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e che fosse la Corte Costituzionale a pronunciarsi sul caso: il tribunale, cioè, mette in dubbio che il Senato potesse, sulla base delle proprie competenze, scindere il reato di diffamazione da quello di aggravante razzista, che spetterebbe, invece, alla magistratura. Spetterà ora alla Suprema Corte decidere se il termine “orango” rientri o meno nelle funzioni di parlamentare esercitate dal senatore Calderoli durante il comizio e se, in ultima analisi, si configuri reato di istigazione all’odio razziale.
Due considerazioni. La prima. Come fa notare Gabriele Maestri, “se alla Giunta e all’assemblea spetta valutare l’esistenza del nesso funzionale tra parole pronunciate e attività parlamentare, si deve ammettere che qui si assiste alla nascita di un monstrum logico-giuridico: in base al voto dell’assemblea, lo stesso fatto storico risulta funzionalmente connesso all’attività parlamentare per un reato, mentre non lo è per la sua aggravante. Questo però non ha alcun senso: il nesso funzionale o c’è o non c’è, tertium non datur, il giudizio non può cambiare a seconda dei punti di vista (cioè del reato o della circostanza considerati), del tutto estranei al rapporto tra dichiarazioni del parlamentare e atti tipici da lui compiuti”. Insomma se Calderoli ha diffamato, esondando dalla legittima opinione di un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, non ha alcun senso condonare l’aggravante razzista propria di quella stessa diffamazione. La seconda. Se l’approdo alla Consulta fa ben sperare in un definitivo chiarimento sulla vicenda, auspicando che la Corte possa ribadire l’ovvietà che è sfuggita a ben 196 senatori della Repubblica, resta l’amarezza di dover gettare dalla finestra tempo, energie e denaro pubblico per dimostrare quel che non abbisognerebbe di dimostrazione alcuna. E di constatare di come la politica – certa politica, almeno – manchi di quegli elementari strumenti di civiltà che avrebbero dovuto guidare i cosiddetti seniores della Repubblica. Passi l’analfabetismo giuridico: quello di civile convivenza no.