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Le due porte di Francesco Palmieri

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Vi dirò de “Le due porte” di Francesco Palmieri, edito da Ad Est dell’Equatore. Un piccolo libro di memorie si fa passato e presente. Fa di due epoche nel tempo e di due luoghi nello spazio, un tutt’uno. Confonde in una penombra purgatoriale il fluire “reale”. Lo eleva al rango della materia nobile, quella del sogno, del ricordo e, dunque, della poesia. C’è Napoli con la sua costa. C’è Caruso, il tenore,e ci sono due storie che si rincorrono sulle note e sui versi della poesia d’amore. Di più, quanto al plot, non dirò.
Dirò però del libro. Che è magico. È un orgoglio, il mio, di poter alzare il telefono, come si sarebbe detto un tempo, e chiamare Francesco Palmieri per godere del suo sguardo che, con garbo, dietro a una lente ironica e melanconica al tempo stesso, sa accostarsi alla bellezza.
Ed è, appunto, questa la chiave del libro. L’accostarsi alla bellezza. Quella fatta dal mito e della Tradizione, da quei segni dell’Antico che offrono radici ben salde a ognuno di noi costretto, suo malgrado, a barcamenarsi nella friabilità di questa vita. Una friabilità che è valoriale, e talvolta perfino geologica in senso stretto.
Non si può leggere questo libro una sola volta. Ce ne vogliono almeno due. Arrivato al fondo, ho pensato che Le due porte, come ne Il gioco del mondo di Cortàzar, potevano essere lette anche in un ordine diverso dei capitoli. Invertendo l’ordine con cui le due parti del libro sono riportate.
Forse la seconda parte sarebbe potuta essere stampata capovolta, creando un secondo accesso al libro laddove oggi c’è la quarta di copertina. Questo è un libro bidirezionale. Come le carte da gioco.
Vi troverete un gioco, sapiente, di dissolvenze, un piccolo labirinto fatto di immagini ora poetiche, ora umoristiche, ora storiche. Assolutamente vere.
Queste piccole cartoline, come appese sui fili dove a Napoli si appendono i panni ad asciugare, raccontano di una Napoli capitale dell’arte e dell’eleganza. Centro attrattivo di quelle forze telluriche, ctonie, che Palmieri per sottrazione, alla maniera degli scultori o degli incisori, ci restituisce attraverso le maschere di Pulcinella, ad esempio. Dei pastorelli del presepe. Chiccheria pura.
Leggere di quelle maschere è talmente coinvolgente che ci si sente letteralmente invasi da quei demoni. Le maschere ci entrano dentro, ci gonfiano e ci cambiano. Sono i mantelli magici dentro i quali scompariamo per ricomparire diversi. Cresciuti, o forse solo tornati bambini. Mentendo quando diciamo la verità, dicendo la verità quando mentiamo.
La filosofia di questo libro è quella tipica degli isolani. È pervaso dall’istinto di morte. La consapevolezza di ogni isola di dover, prima o poi, inabissarsi. Non è pessimismo, però. Anzi, è il grimaldello che scatena l’altro istinto protagonista del libro. Quello di amore. Il tiro a due della vita. E noi lettori non siamo che gli ospiti di un calesse che, tirato da questi due cavalli, non fa altro che entrare e uscire dalle due porte là, in fondo nel borgo delle Due Porte appunto come dentro uno dei tanti labirinti favorevoli.
È inutile giocare per vincere nella vita se poi comunque, prima o poi, tutto è destinato a sprofondare. Foss’anche la lapide più bella con l’epitaffio più icastico del più illustre e sommo poeta. Nulla finisce solo se sappiamo, come api, raccogliere il polline dei segni e farne nuovo seme. La luce di questo libro illumina l’anima. Fuori davanti agli occhi è una tenue e dolce penombra. Le palpebre sono a mezz’altezza. Di fronte il golfo, la lacrima gonfia le pupille e fissa nella distorsione, tutta acquosa, l’incessante tremolio dell’azzurro del mare che si sfascia nel suo omonimo cielo. Tant’è.


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