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L’Europa, gli Usa e l’incognita cinese

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Le relazioni tra gli Usa e l’Europa trovano la loro metafora nelle politiche monetarie della Fed e della Bce. Janet Yellen e Mario Draghi si comportano come una coppia d’altri tempi: anche quando i due Governatori annunciano politiche monetarie a prima vista opposte, rappresentano strumenti addirittura complementari. Fanno parte di un disegno unitario, come sono inseparabili le economie delle due sponde dell’Atlantico. A voler trascurare, se non fossero ancora più forti, i legami politici, militari e strategici rappresentati dal Trattato del Nord Atlantico.

Sono mesi che Janet Yellen annuncia, e rinvia a malincuore, il “liftoff”, il primo rialzo dei tassi da sette anni a questa parte: la prossima scadenza è a dicembre. Anche se tutti si aspettano che l’aumento del tasso per i Fed funds non sarà superiore ad un quarto di punto, i mercati guardano ancora più avanti: se a fine d’anno il cambio tra euro e dollaro potrebbe arrivare ad 1,05, nei 12 mesi successivi scenderebbe a 0,95 dollari.

Si aspettano poi le mosse di Mario Draghi, che da altrettanti mesi usa un intercalare invariabile, “se necessario”, per ammonire la comunità finanziaria di essere pronto ad aumentare l’importo, la durata e la composizione del Qe. Anche per questa decisione della Bce, l’appuntamento è per dicembre. Il rafforzamento del Qe servirebbe a far uscire l’Eurozona dalla morsa della deflazione: ad ottobre l’indice è stato pari a zero, distante anni luce dall’obiettivo del 2%. L’unico modo per aumentare i prezzi interni nell’area dell’euro, considerando la stringenza dei vincoli posti ai deficit pubblici e le politiche di severità salariale volte a migliorare la competitività esterna, è rappresentato dalla svalutazione del cambio e dal conseguente aumento dei prezzi all’importazione.  I tassi negativi sui depositi presso la Bce e la immissione di liquidità sono gli strumenti necessari per sollecitare il deflusso di capitali dall’Eurozona e la conseguente svalutazione. L’effetto delle dichiarazioni di Draghi sul cambio dell’euro è istantaneo: giovedì 22 ottobre, nel corso della conferenza stampa in cui annunciava la possibile estensione del Qe a dicembre, il tasso sul dollaro è passato da 1,132 ad 1,117. C’è poi una seconda ragione per svalutare l’euro: sulla base della impostazione tedesca, una sana crescita economica dell’Eurozona deve fondarsi sulla capacità di competere sui mercati internazionali, e l’assorbimento della disoccupazione deve derivare dalla domanda estera.

Purtroppo, per quanto riguarda l’economia dell’Eurozona, il rallentamento della crescita cinese, la crisi dei Paesi emergenti e la contrazione ai minimi dei prezzi delle materie prime e del petrolio hanno vanificato gli effetti positivi attesi dalla svalutazione dell’euro: importare inflazione e sostenere l’export. Di converso, per quanto riguarda gli Usa, da oltre un anno la Cina non reinveste più i suoi attivi commerciali in titoli del debito pubblico stratunitense, ed anzi più volte è parsa agire per venderli.

Se, dunque, già da parecchi trimestri molti capitali hanno lasciato l’area dell’euro per investire in dollari, questa tendenza si rafforzerà quando i tassi americani saliranno, come è dichiarata intenzione della Fed. Occorre dunque insistere, con una strategia sinergica: sia con il rafforzamento del Qe da parte della Bce sia con l’innalzamento dei tassi da parte della Fed. L’immissione di altra liquidità in euro ed il contestuale aumento dei tassi sul dollaro agevoleranno contestualmente la svalutazione dell’euro ed il carry trade verso l’area del dollaro.

Tutto ciò è coerente con un disegno in cui l’Europa subentra alla Cina nel finanziamento del debito pubblico americano e del suo disavanzo commerciale,  e magari di tanti crediti in dollari nei confronti dei Paesi emergenti.

Mentre la svalutazione dell’euro avvantaggerebbe l’export commerciale europeo, il conseguente surplus verrebbe reinvestito negli Usa: l’interdipendenza tra le due aree economiche diverrebbe ancora più forte, divenendo il miglior viatico per l’approvazione del Trattato Transatlantico per la liberalizzazione dei servizi e la protezione degli investimenti. In questi termini, la penalizzazione di cui l’economia americana soffrirebbe nei confronti dell’industria europea sarebbe ampiamente compensata dalla apertura alla concorrenza del settore dei servizi, che rappresentano un punto di forza dell’economia statunitense ed anglosassone. Questo schema sarebbe immediatamente vantaggioso per entrambi, Usa ed Eurozona, e soprattutto ben bilanciato in prospettiva.

Sembra tutto ben congegnato, se non ci fosse l’incognita cinese: se lo yuan si allineasse all’euro, svalutandosi a sua volta sul dollaro, i giochi si riaprirebbero. Gli sforzi compiuti in Europa per riconquistare competitività deflazionando i salari e svalutando verrebbero ampiamente vanificati. Gli Usa, a loro volta, tornerebbero ad avere un disavanzo commerciale difficilmente sostenibile e forse anche il dollaro sarebbe compromesso nella sua solidità. Le banche europee si troverebbero di fronte al rischio di accollarsi le perdite di una nuova bolla del credito americano. Pechino ha riserve valutarie rilevanti, si sente “circondata” per via dell’Accordo Trans Pacifico, ed ha già reagito con la decisione di abrogare la legge sul figlio unico.

Partita aperta, dunque. Nessuno ha mai in mano tutte le carte del mazzo.


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