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Pensioni, perché contesto Boeri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

E’ da più di mezzo secolo che opera l’istituto (ovvero il meccanismo) della perequazione o indicizzazione automatica delle pensioni in godimento, in perfetto ossequio all’art. 38, c. 2, della nostra Costituzione, che ha previsto che ai pensionati siano assicurati “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”.

Tuttavia nell’ultimo quarto di secolo, a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, si è intervenuti pesantemente e ripetutamente (per una dozzina d’anni) su tale meccanismo, così da compromettere seriamente la tenuta del potere d’acquisto delle nostre pensioni e mettere a rischio diritti e principi consolidati.

Infatti il D.Lgs. 503/1992 ha stabilito che, a partire dal 1994, la perequazione automatica delle pensioni dovesse avvenire solo sulla base dell’adeguamento al costo della vita (certificato dall’ISTAT) e con cadenza annuale.

In precedenza (cioè fino al 1992) la perequazione avveniva su base semestrale ed in relazione alla variazione media delle retribuzioni contrattuali dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati. Inoltre la percentuale di perequazione era: del 100% fino a 2 volte il trattamento minimo; del 90% tra 2 e 3 volte il trattamento minimo e del 75% per gli importi eccedenti il triplo del trattamento minimo.

Il meccanismo recente più consolidato di perequazione automatica è stato introdotto dalle leggi 448/1998 e 388/2000, secondo cui la perequazione automatica spetta per intero (100%) soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a 3 volte il trattamento minimo INPS, mentre è ridotta al 90% per le fasce di importo tra 3 e 5 volte il trattamento minimo ed al 75% per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto trattamento minimo.

Il legislatore ha quindi previsto che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche.

Rispetto a tali criteri (diciamo standard) si è subito derogato, ad esempio nel 2008 la perequazione non è stata applicata del tutto per le pensioni di importo superiore a 8 volte il trattamento minimo INPS, cioè superiori a 3.539,72 € mensili lordi (art. 1, c. 19, L. 247/2007).

Inoltre nel 2012 e 2013 (art. 24, c. 25, d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011), tutte le pensioni di importo lordo oltre 3 volte il minimo INPS, cioè oltre 1.441,58 nel 2012, ed oltre 1.486,29 € nel 2013, non sono state rivalutate del tutto (legge Monti – Fornero).

Nel triennio 2014-2016 (a seguito della legge 147/2013 del Governo Letta) la percentuale di rivalutazione è stata correlata all’importo complessivo del trattamento pensionistico e non più alle varie fasce di importo. Pertanto la rivalutazione risulta: del 100% fino a 3 volte il minimo INPS; del 95% per i trattamenti complessivi tra 3 e 4 volte il minimo INPS; del 75% tra 4 e 5 volte il minimo INPS; del 50% per i trattamenti complessivi tra 5 e 6 volte il minimo INPS; infine oltre 6 volte in minimo INPS (cioè oltre 2.990,42 €) non ha operato alcuna indicizzazione nel 2014, anche se gli importi fino a 2.990,42 sono stati rivalutati del 40% dell’indice inflattivo, mentre dal 2015 la rivalutazione è stata e sarà del 45% dell’indice ISTAT previsionale per tale anno e sull’importo complessivo dei trattamenti medesimi.

In precedenza il meccanismo perequativo non discriminava quindi tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, ma solo tra le fasce di importo.

Tutte le variazioni sono sempre state peggiorative, con l’unica eccezione della legge Damiano (L. 127/2007) che, per il triennio 2008, 2009, 2010, ha annullato la distinzione della rivalutazione al 90% per gli importi di pensione tra 3 e 5 volte il minimo INPS, portandola al 100% come per le pensioni fino a 3 volte il minimo INPS.

L’azzeramento della perequazione, nel 2008, per le pensioni oltre le 8 volte il minimo INPS è stato sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, che ha posto in evidenza, con la sentenza 316/2010, la discrezionalità di cui gode il legislatore nell’individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni, sia pure nell’osservanza dei principi costituzionali di proporzionalità ed adeguatezza delle pensioni, così da reputare non illegittimo l’azzeramento, per il solo 2008, dei trattamenti pensionistici di importo più elevato (cioè superiore ad 8 volte il trattamento minimo INPS). La sentenza stessa ha indirizzato nel contempo un monito al legislatore “ poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, infatti le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.

La sentenza 316/2010 si era però “arrampicata sugli specchi” sostenendo, ad esempio, che le pensioni più consistenti, incise per un solo anno, presentavano “margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo” e che “non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa”.

Ed invece, per la modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere d’acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è per sua natura definitiva; non è vero che le pensioni più elevate presentino maggiore resistenza rispetto ai fenomeni inflattivi, infatti su di esse grava un prelievo fiscale crescente; non si trattava di rallentamento della dinamica perequativa, ma di blocco.

Più risoluta è stata la sentenza 70/2015 della Corte (redattore dott.ssa Silvana Sciarra) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, c. 25, del d.l. 201/2011 (convertito in legge 214/2011), norma che ha riconosciuto, per il biennio 2012 e 2013, “la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici solo a quelli di importo complessivo fino a 3 volte il minimo INPS, e nella misura del 100%”.

La norma censurata è quella della riforma Fornero, finora l’espressione più brutale dell’accanimento contro le pensioni ed i pensionati. Secondo la Corte il diritto alla conservazione del potere d’acquisto delle pensioni risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate nel dettaglio, e senza nessuna possibilità di recupero successivo. “Risultano dunque intaccati – dice la Corte – i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, intesa quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.”.

Alle polemiche “di parte” dei legislatori (che avevano emanato le norme illegittime) circa l’indifferenza dei giudici costituzionali rispetto agli equilibri di bilancio del Paese, quasi che ai giudici costituzionali competesse di realizzare gli equilibri di bilancio anziché valutare la coerenza delle leggi rispetto ai principi costituzionali, in modo paradossale e scandaloso il Presidente della Corte Alessandro Criscuolo ha suggerito come aggirare la pronuncia della Corte da lui presieduta: intervenisse il legislatore con norma di legge, ora per allora (nel 2015 per il biennio 2012-2013), in modo da attutire o vanificare gli effetti della pronuncia della Corte stessa.

Ed ecco che è prontamente intervenuto, nel maggio di quest’anno, il d.l. 65/2015, convertito in legge 109 del 17 luglio 2015.

Tale disposizione ha stabilito che rispetto alla variazione ISTAT applicabile nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo INPS sia riconosciuto il 40%, ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo INPS il 20%, ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo INPS il 10% (secondo criteri cervellotici, del tutto incoerenti rispetto all’indicizzazione degli anni precedenti, nonché di quelli successivi).

Anche il cosiddetto “effetto trascinamento”, cioè il computo ai fini dei successivi incrementi dei miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013, è stato contingentato nel 2014 e 2015 al 20% della quota di adeguamento riconosciuta, ed al 50% nel 2016: insomma una indegna “una tantum” a titolo di mancia. Non una parola su interessi e rivalutazione, pur dovuti per le somme percepite in ritardo dai pensionati.

Per i percettori di pensioni oltre 6 volte il minimo INPS nulla è dovuto: per essi l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, c. 25, della legge Fornero (L. 214/2011) continua ad operare in modo pieno e stridente, e nonostante che proprio queste categorie di pensionati siano sempre state le più penalizzate, dal 1998 ad oggi.

In luogo dei 20 mld di euro “maltolti” ai pensionati nel biennio 2012-2013, lo Stato si limita a restituirne poco meno di 2 mld, a partire da agosto 2015. Se questo è un Paese “normale”!

I responsabili di questo provvedimento, che disattende completamente lettera e spirito della sentenza 70/2015 della Corte, sono certamente i Ministri Poletti e Padoan, ed ancor più il Premier Renzi, che ha definito la parzialissima e limitata restituzione un “simpatico bonus”, anziché un “malus malignus”.

Altro insulto alle pensioni e ai pensionati, oltre alla mancata o ridotta indicizzazione, è stato rappresentato, negli ultimi 15 anni, dai cosiddetti “contributi di solidarietà” a danno delle pensioni di importo più elevato.

Un primo contributo di solidarietà, a decorrere dal 1° gennaio 2000 e per un periodo di tre anni, è stato introdotto dalla legge 488/1999 (art. 67) nella misura del 2% sugli importi dei trattamenti pensionistici complessivamente superiori al massimale annuo previsto dall’art. 2, c. 18, della legge 335/1995, vale a dire sulle pensioni di importo annuo lordo superiore a 144, 148, 152 milioni circa di lire (cioè superiori a circa 74.500, 76.500, 78.550 €) nei tre anni anzidetti.

Un secondo contributo di solidarietà è stato introdotto a metà del 2011 dalla legge 111/2011, che ha previsto un prelievo del 5% sull’importo delle pensioni oltre i 90.000 € lordi/anno, nonché del 10% sugli importi delle pensioni oltre i 150.000 € lordi/anno, a valere dal 1° agosto 2011 e fino al 31/12/2014. Tale disposizione è stata giudicata incostituzionale, con sentenza 116/2013, da parte della Corte competente.

Un terzo contributo di solidarietà è stato introdotto, a valere per il triennio 2014-2016, dalla legge 147/2013 del Governo Letta. Tale contributo opera: in  misura del 6%, sulle pensioni lorde oltre 14 volte il minimo INPS; in misura del 12% sulle pensioni oltre 20 volte il minimo; in misura del 18% sulle pensioni oltre 30 volte il minimo INPS (in concreto nel 2015, rispettivamente oltre 91.160, 16, oltre 130.228,80 ed oltre 195.343,00 € lordi/anno).

Pur nella sostanziale correttezza della sentenza 70/2015 della Corte costituzionale, c’è da rilevare tuttavia come essa non abbia avuto il coraggio e l’onestà di riconoscere che la mancata o ridotta perequazione automatica, così come i contributi di solidarietà, altro non siano se non una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria.

Si tratta infatti di una imposta speciale, in quanto le norme censurate limitano i destinatari della stessa soltanto ad una “platea di soggetti passivi”, cioè i percettori del trattamento pensionistico, in violazione del principio della universalità e gradualità dell’imposizione di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

E come non vedere nell’attuale procedere improvvisato, disordinato, disorganico, capriccioso della legislazione in materia previdenziale una lesione del principio di affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 della Costituzione, non meno che della certezza del diritto di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali?

Si soleva dire che, finché il lavoratore era in attività, c’era solo l’aspettativa della pensione in corso di maturazione, ma una volta decretato l’importo da parte dell’Ente gestore di competenza, il diritto era consolidato ed intangibile. Ora, purtroppo, non è più così.

Ma senza certezza non c’è regola, norma, diritto che tenga: tutto diventa aleatorio, quanto di peggio c’è per una persona (debole per definizione) quale è il soggetto pensionato.

Per fortuna che c’è la FEDER.S.P.eV., che continua a difendere risolutamente principi e diritti dei pensionati, e loro vedove/i, e dei pensionandi.

Con gli interventi improvvisati, tipo gli 80 € distribuiti a pioggia ai titolari di redditi inferiori a 25.000 € circa/anno, anziché rinnovare i contratti del pubblico impiego, scaduti da 6 anni (ed anche questo “blocco” è provvedimento di legge dichiarato incostituzionale dalla Corte, con sentenza 178 depositata il 23/07/2015), ovvero la promessa di togliere le tasse sulla prima casa, si possono anche vincere le elezioni (come avvenuto alle ultime europee) ed aumentare, utilizzando risorse pubbliche, la propria base elettorale, ma alla fine si lasciano solo macerie perché si tratta di interventi e promesse non inseriti in un disegno organico e lungimirante per il Paese.

E che non vengano ad annoiarci, con la solita litania in occasione delle prossime leggi finanziarie o di stabilità, con la minaccia di assoggettare, ora per allora, le pensioni retributive in essere alle regole del calcolo contributivo, infatti le pensioni retributive in godimento hanno già perso, negli ultimi 8-9 anni attorno al 20-25% del loro potere reale d’acquisto (per il combinato disposto della ripetuta mancata o ridotta indicizzazione e per il coincidente accresciuto carico fiscale), tale per cui il tasso di sostituzione (rapporto tra rateo di pensione rispetto alla retribuzione al momento della cessazione), che era anche dell’80-85% in origine, si è già ridotto al 55-60% attuale, che è il tasso di sostituzione proprio delle pensioni contributive future a parità di contributi versati.

Se poi una pensione retributiva in atto (di importo medio-alto) avesse già 17-18 anni di età, essa avrebbe perso non meno del 40% in termini reali, portando così il relativo tasso di sostituzione al 50%, o addirittura al di sotto di tale percentuale.

La misura delle mortificazioni inferte ai pensionati è ormai colma, anche i pensionati (pure se anziani per definizione e talvolta ammalati) possono reagire in modo pesante ed efficace utilizzando tutte le armi a disposizione. A buon intenditor, poche parole…

Finora (e per fortuna) i pensionati ENPAM, a differenza dei loro Colleghi iscritti all’INPS o ex INPDAP, non hanno subito e non subiscono le restrizioni anzidette sulla rivalutazione delle pensioni in godimento (che avviene in misura del 75% fino a 4 volte il minimo INPS e del 50% sugli importi oltre 4 volte il minimo INPS, e senza alcun tetto).


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