Ieri ho dedicato una puntata di Bianco e Nero all’assoluzione di Calogero Mannino nel processo trattativa Stato-mafia. Per farlo mi sono letto un po di articoli di Marco Travaglio utili e interessanti a ricostruire il contesto della sentenza. Il suo ragionamento era però inquinato da una contraddizione che mi pare da tempo consustanziale al suo modo di pensare. Quando qualcuno che Travaglio ritiene colpevole viene assolto in lui scatta una duplice reazione. 1) “Non mi interessa il profilo giudiziario” dice, “mi interessano i fatti”. La sentenza di assoluzione in sostanza non cambia di una virgola “i fatti” di cui Travaglio è geloso custode. Quelli restano, fieri e inconcussi, a “gridare” la colpevolezza sostanziale del malcapitato.
2) In questi casi, per Travaglio, una sentenza di assoluzione è sempre “provvisoria”, un passaggio spesso fastidioso prima che la luce della colpevolezza brilli nei gradi successivi di giudizio. I giudici avranno commesso una svista, si saranno inteneriti, ma attenzione a considerare l’imputato innocente più che per una incresciosa fase “provvisoria”.
Al contrario, quando giunge una sentenza di colpevolezza che soddisfa le aspettative di Travaglio, essa perde immediatamente il suo “profilo giuridico” ed entra a testa alta nel mondo dei fatti.
Entra cioè a far parte di un empireo superiore dove sentenze e fatti luminosamente coincidono sotto lo sguardo benevolo di Travaglio. Una sentenza di colpevolezza poi è sempre “definitiva”, sì certo ci sono quei fastidiosi tre gradi di giudizio, in cui avvocati azzeccagarbugli ed ermellini fumosi posso ribaltare la verità processuale ma certamente mai quella fattuale. Una sentenza di condanna, anche cancellata in appello o in cassazione, resta per sempre come un marchio a fuoco, pronta a essere rievocata per ogni buon conto. Perché la condanna è limpida, onesta, pura. Nell’assoluzione invece c’è sempre un “peró”.