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Come prolungare la durata della vita

Di Adriana Gini

È possibile ritardare il processo dell’invecchiamento e/o prolungare la durata della vita (“extended life”)? Se le scienze moderne riuscissero a realizzare questo “sogno”, quali le implicazioni etiche? Sono queste domande complesse e le opinioni, in questionari pubblici, non mostrano tanto il prevalere di una maggioranza in favore, quanto un certo equilibrio tra le posizioni, evidenziando la necessità di una riflessione approfondita per i complessi interrogativi sollevati.

Dagli anni 90′, studi su nematodi, hanno permesso di estendere la vita di questi vermi di forma cilindrica, attraverso la manipolazione genetica, sino a cinque volte. Col progredire delle ricerche, questo risultato è stato interpretato come una possibilità di prolungamento della vita umana fino a giungere a 400-500 anni, con una fase giovanile più lunga e la preservazione del vigore fisico. Ma uno studio recente condotto alla University of Massachusetts, ci rivela una situazione ben diversa. “Sebbene avessimo constatato, nel gruppo geneticamente modificato, un prolungato stato di buona salute, al trascorrere del tempo- afferma Heidi Tissenbaum, la principale ricercatrice – ciò avveniva a spese di una maggior durata del periodo di vulnerabilità fisica e di inattività [dei nematodi]”.

In breve, esiste una differenza significativa tra la durata della vita e la durata di uno stato di buona salute (o “healthspan”, cioè il numero di anni di vita produttiva, prima dell’instaurarsi della fase di declino associata all’età). “Se vogliamo ottenere geni (modificati) che ci assicurino di rimanere in buona forma fisica, quando invecchiamo –  e che ci consentano, per esempio, di giocare a tennis a 70 anni, come quando ne avevamo solo 40 – non dobbiamo considerare la longevità come l’unico criterio valido – continua la prof.ssa Tissenbaum del Programma di Medicina Molecolare della University of Massachusetts, Medical School, negli Stati Uniti.

Recentemente, le ricerche si sono estese dai nematodi ad altre specie: esiste la “mosca matusalemme”, denominata così per la sua longevità, nella quale un singolo gene, presente anche nell’uomo, favorisce la selezione delle cellule più “in forma” rispetto a quelle che hanno accumulato danni nel corso del tempo; c’e un ceppo di topolini modificati della Brown University nei quali, quando l’attività del gene Myc viene ridotta, si osserva un incremento del 15% della durata della vita, associata alla riduzione di alcuni effetti biologici dell’invecchiamento, quali osteoporosi, deficits immunitari e fibrosi cistica. Nell’eventualità dell’applicazione all’uomo dei risultati di tali ricerche e, quindi, anticipando una necessaria valutazione etica, qualsiasi sia la posizione da noi sostenuta, non si potrebbe prescindere dalla sicurezza delle metodiche utilizzate.

Inoltre, dovremmo considerare la difficoltà e complessità del risolvere dilemmi di interesse sociale, mai affrontati in precedenza, quali quelli della modificazione nei rapporti intergenerazionali e familiari, che un significativo prolungamento della vita umana produrrebbero, così come mutamenti profondi nella struttura ed organizzazione del lavoro – con il rischio della disoccupazione giovanile – nei sistemi di previdenza sociale, dei servizi sanitari e di assistenza ai più anziani, ed altri oggi assolutamente imprevedibili. In tutta umiltà, e se partiamo dal presupposto che la scienza e la tecnica dovrebbero rispondere e realizzare richieste plausibili, l’obiettivo del miglioramento della salute e, con essa, delle funzioni mentali, sarebbe sicuramente nostro interesse primario. Se poi questo processo dovesse risultare in una vita più lunga, ci troveremmo, forse, con un ulteriore incentivo a continuare nelle ricerche della “extended life”.

Perché dico forse? Volendo ampliare la nostra prospettiva, è lecito chiedersi se una vita realizzata, e il raggiungimento del cosiddetto “human flourishing”  – ché poi non è questo che tutti noi desideriamo? – dipenda, in realtà, non dal numero degli anni o dallo stato di salute, ma dalla qualità del nostro viverla, la vita, qualità che dipende anche da un semplice gesto affettuoso, liberamente offerto, nella convinzione che sia l’amore per il prossimo, di evangelica memoria, a rendere la vita più lunga e più felice. Dico questo, perché credo sinceramente  ed esperimento, giornalmente, che sia possibile trovare il farmaco della “immortalità” nella gioia donata. Una lettura teologica – alla quale la scienza con difficoltà si apre o rifiuta aprioristicamente –  è quella di Papa Emerito Benedetto XVI che, in una omelia del Sabato Santo del 2010, ha voluto ricordarci  “tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che ci è stato imposto.

Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte…” e, aggiungiamo noi, ancor di più ai giorni nostri, segnati da una tecnologia sempre più dimentica dei propri limiti, che propone soluzioni insufficienti al desiderio di infinito che è nel cuore di ognuno, o promette traguardi irraggiungibili. “…Come sarebbe veramente – prosegue Benedetto XVI – se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni”? Questa è la vera domanda che il credente e, con esso, ogni uomo e donna di buona volontà, dovrebbe porsi, cioè la ricerca di significato, alla quale la scienza, da sola, non può dare risposta. ”…La vera erba medicinale – prosegue il Papa Emerito -…dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro… Nel Battesimo questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi… matura nella fede e non viene cancellata dalla morte…Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile”. Il dolore e la sofferenza trovano il loro significato più profondo nella Croce: Cristo morente incontra ciascun uomo e donna, e rende loro accessibile la vita vera, una vita in pienezza, non più ” imprigionata” dal numero degli anni. E alla fine, “Per questo Paolo può dire ai Filippesi: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!” (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare. La si può solo donare”.  Il Signore è la risposta, e profonda sarà la nostra gioia se, in Lui rimaniamo e diveniamo gioia per gli altri, facendoci dono.

Adriana Gini è membro della nominating committee dell’international neurothics society, Bethesda Maryland Usa

Articolo pubblicato sul numero di Formiche di novembre

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