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Ecco tutti gli errori degli austeri europeisti

La sinistra ha sempre sostenuto che “tutto è politica”. Se è vero, l’anti-politica non esiste. Anche il cosiddetto populismo è, pertanto, politica. Come lo è l’assenteismo elettorale: un giudizio “politico” assoluto sulle forze politiche, di segno negativo e senza appello. Infatti la scelta di non recarsi alle urne è pur sempre una scelta, non un atto di pigrizia o di disinteresse: è un messaggio politico chiaro. Se non riconosce questo, la sinistra finirà vittima della propria analisi sbagliata.

Come spesso accade, le forze moderate si accodano alle analisi della sinistra, ritenuta intellettualmente più attrezzata per comprendere la realtà. Se perdono consensi, anch’esse trovano consolatorio sostenere che il populismo avanza, che l’anti-politica conquista spazi nell’opinione pubblica. La sinistra ragiona per “strutture” perché sembra più serio, i moderati ragionano per “opinioni” perché è meno faticoso.

Né gli uni né gli altri prestano attenzione ai fatti, soprattutto a quelli macroscopici. Ormai, da qualche anno, il panorama è chiaro: le due grandi famiglie politiche rappresentate al Parlamento europeo che sono i pilastri dell’europeismo – i socialisti e i popolari – stanno perdendo consensi. Ciò avviene in coincidenza della crisi dell’Europa come istituzione che aveva promesso maggior benessere per tutti. Fino a quando l’economia tirava, l’Europa (cioè gli europeisti) attribuiva a se stessa il merito e i grandi partiti europeisti raccoglievano voti. Poi è arrivata la crisi e l’Europa (cioè gli europeisti alla guida dei governi nazionali e delle istituzioni europee) non è stata in grado di affrontarla con rapidità e lungimiranza: l’ha aggravata con l’austerità.

Le buone famiglie europeiste gridano contro i rigurgiti nazionalistici. Ma a rilanciare i nazionalismi è stata la politica di austerità che ha divaricato le posizioni dei diversi Stati-membri: ne ha favorito alcuni e ne ha danneggiato altri. Il nazionalismo l’hanno fatto risorgere le istituzioni europee, la Commissione, il Consiglio e la Bce. Ovviamente gli europeisti non vogliono ammetterlo. Invece di riconoscere i propri errori, dicono: “Ci vuole più Europa”. Saremmo tutti d’accordo se le politiche dell’Europa avessero avuto effetti benefici, ma non è stato così. Ovvio, allora, che gli elettori rifiutino la guida dei partiti europeisti, socialisti o popolari che siano. Poi, in ogni Paese, il rigetto assume forme e colori specifici: in Grecia come in Spagna, in Italia come in Finlandia, in Francia come in Ungheria.

La prospettiva di un’Europa che favorisce una maggiore uguaglianza e la promuove a livelli sempre più alti di benessere si è trasformata nella constatazione di una crescente disuguaglianza tra chi ricava più vantaggi dal sistema europeo e chi ne ricava dolorose penalizzazioni. Conseguenza: o non si va a votare oppure si votano quei partiti che, facendo leva sui temi localmente più sensibili, si mostrano critici verso “questa” Europa senza, in molti casi, essere del tutto contrari all’idea stessa di Europa.

Purtroppo la sinistra non è abituata a fare autocritica. Quanto ai moderati, proprio perché si ritengono tali, pensano di non averne bisogno, credono di essere nel “giusto mezzo” e questo a loro basta. Ma la diagnosi è chiara: le forze politiche, vecchie e nuove, hanno la discriminante nell’Europa. Alcune vogliono la prosecuzione di “questa” Europa, e perdono consensi; le altre non hanno bisogno di progetti alternativi organici: a loro basta raccogliere le diverse motivazioni di dissenso. Il punto critico di questa situazione è nel fatto che non basta dire, come fa Matteo Renzi, che “Questa Europa non ci piace”. Manca del tutto un progetto alternativo, sostituito da contingenti rivendicazioni di parte: migrazioni, garanzia sui depositi, gasdotti, lotta all’Isis. Ogni Paese, e ogni governo, stende alla finestra i propri panni, cioè le proprie bandiere.

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