Mi scrive un tale. È stato appena licenziato da una multinazionale che aveva una partecipazione nella piccola società in cui lavoro. Per tutto il tempo in cui la multinazionale ha avuto un rapporto finanziario con la società dove lavoro, l’avrò veduto, sì e no, un paio di volte. Il suo atteggiamento, coerente del resto con quello della società, è sempre stato altezzoso. Per dirla con il linguaggio della strada, si potrebbe dire che – se la tirava -. Ci guardavano, loro, – i multinazionali -, dall’alto dei loro inglesismi, del business development, degli skills, goals, weakness and strenghts. Insomma, era uno sfrangere i cabbassisi contro un muro a secco quelle rare volte in cui bisognava sorbirsi il bisorchiato di nerchia della loro spacchiosaggine fighettna. Gessata di coscia è gemellata di polso.
Ora che è stato licenziato, mi scrive chiedendomi come sto, mi fa gli auguri per Natale e si propone, docile come un agnellino, di illustrarmi il suo progetto professionale.
Giusto mezz’ora prima di ricevere questa missiva telematica, leggo con molta attenzione la dettagliatissima intervista di Claudio Sabelli Fioretti – neo firma del Fatto – a Totò Cuffaro. Un uomo nuovo. Fortificato dalle durezze del carcere, con in petto un’anima lievitata grazie alla numerosissime letture e all’aumentata capacità riflessiva. Tutto un gonfiare dell’anima, quello di Totò, che è peraltro un dato fisiologico raccontato in quello sgonfiarsi del doppio mento e di quelle sette ganasce che sono l’apparato fenomenico del politico di lungo corso. Già, Cuffaro che esce da quest’intervista come un gigante quando il suo unico merito però, alla fine, rimane l’eccezionalità di aver pagato col carcere le sue colpe.
La verità è che è proprio difficile essere uomini. É troppo facile essere puntuali con il rispetto per la comunità di cui si fa parte quando si è al capolinea. Al capolinea, prima di partire, tutti gli autobus sono puntuali. È a metà del percorso che è dura essere ancora in orario. Tant’è.