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Chi professa la stagnazione secolare

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

«Io sono tra quelli che ritengono che l’ipotesi di una stagnazione secolare non sia così peregrina». Con queste testuali parole il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha confessato pubblicamente il suo scetticismo sulle speranze di una ripresa vigorosa dell’economia. Ad ascoltarlo, pochi giorni fa, c’erano i partecipanti a un seminario di previsioni della Confindustria, in testa il presidente Giorgio Squinzi. Sorpresi? Non più di tanto, visto che anche uno studio recente del Centro studi confindustriale ha discettato sulla stessa teoria economica. Semmai, la constatazione che nel governo vi sono due correnti di pensiero di segno contrario: mentre Matteo Renzi non perde occasione per parlare di ripresa e dell’Italia con tanti segni più, fino al più 1,5% del pil nel 2016 di domenica scorsa su Raiuno, Padoan non fa mistero di essere assai meno ottimista.

Solo il tempo dirà se siano più centrate le previsioni dell’uno o dell’altro. Ma se le idee in seno al governo sono così confuse, non c’è da stare allegri. Tanto più che la teoria della stagnazione secolare, che disegna un futuro di sacrifici e di minore ricchezza per tutti, sta facendo proseliti. Il primo a parlarne è stato l’ex segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, che nel settembre 2103 la preconizzò in un discorso al Fondo monetario internazionale, facendo propria una teoria elaborata negli anni Trenta da Alvin Hansen, un economista americano. Secondo Hansen, il mancato aumento della popolazione Usa, rispetto alle previsioni, e le scarse innovazioni tecnologiche erano state le cause maggiori della Grande Depressione, una crisi che, proprio per le premesse, sarebbe durata decenni, forse un intero secolo.

Quella previsione fu però smentita dai fatti, per un insieme di fattori, quali il New Deal del presidente Roosvelt che rilanciò gli investimenti in chiave keynesiana, fino al rilancio dell’industria bellica causato dalla Seconda guerra mondiale. Ma Summers, personaggio geniale ed eccentrico dell’establishment americano, ha riproposto la teoria di Hansen come possibile spiegazione della stagnazione economica dei nostri giorni. Il punto di partenza è semplice: dalla rivoluzione industriale in poi, il capitalismo ha avuto tre motori: crescita economica, crescita demografica, crescita tecnologica. Se però uno di questi motori (la crescita demografica) rallenta, l’intero sistema va in crisi: meno popolazione significa meno consumi, quindi meno produzione, meno pil, meno sviluppo. Se poi l’innovazione tecnologica serve ad aumentare la produttività, riducendo i posti di lavoro, i consumi scendono ancora di più, trascinando verso il basso produzione e pil. E a quel punto la recessione diventa stagnazione duratura.

La tesi di Summers, in mancanza di meglio, ha diviso gli economisti. Tra i favorevoli, il più noto è Paul Krugman, Nobel per l’economia, keynesiano, che giudica la teoria della stagnazione secolare adatto a spiegare soprattutto la crisi dell’Europa, come portato inevitabile dell’invecchiamento della popolazione e delle demenziali politiche di austerità imposte dalla Germania. Il rallentamento demografico, sostiene Krugman, è tipico dei Paesi ricchi e di più antica industrializzazione: per questo, a suo avviso, starebbe colpendo anche gli Stati Uniti e, in prospettiva, potrebbe avere ripercussione perfino in Cina.

Ben diverso il giudizio dei critici, che considerano la tesi di Summers nient’altro che un abile espediente teorico per mascherare le responsabilità della speculazione finanziaria, oltre a quelle personali dell’economista, rispetto alla crisi iniziata nel 2008. Quando era al governo, prima come ministro del Tesoro di Bill Clinton e poi come consulente di Barack Obama, Summers ha avuto un ruolo decisivo nell’abrogazione del Glass-Stegall Act, che, dagli anni Trenta, teneva separate le banche commerciali da quelle speculative. In pratica, fu lui a dare vita, per legge, al casinò finanziario dei derivati, settore sul quale impedì a più riprese che si introducesse qualsiasi forma di controllo. Fu allora, per le decisioni di Summers uomo di governo, che ebbero inizio il tracollo della Lehman Brothers, la crisi delle banche «too big to fail» e la grande crisi del 2008, da cui gli Usa cominciano a riprendersi solo ora, dopo sette anni, mentre per l’Europa la stagnazione continua, complici l’austerità e il calo demografico.

Nipote del Nobel Paul Samuelson, Summers è noto tra i colleghi economisti per l’ego ipertrofico e la disinvoltura politica: iniziò la carriera collaborando con Ronald Reagan, passò poi ai democratici con Clinton, e per poco non è riuscito a diventare presidente della Fed, dove Obama gli ha preferito la più prudente Janet Yellen. Summers è stato a lungo rettore di Harvard, poltrona da cui è stato cacciato per un giudizio sessista, avendo detto che le ragazze sono meno dotate dei maschi nello studio della matematica. Ecco, è un tipo così che ora teorizza un secolo di vacche magre. Con Padoan tra i seguaci.

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