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Non facciamo gli indiani su Pininfarina

In una recente trasferta a Monaco di Baviera per la presentazione di una concept car Bmw, ho avuto modo di intrattenermi con lo staff dei designer che avevano “pensato” il nuovo modello. In che lingua? In italiano, perché la paggior parte degli ingegneri presenti aveva alle spalle un passato torinese. Quasi tutti, tedeschi, canadesi o americani, avevano imparato il mestiere alla scuola di Sergio Pininfarina, il genio che aveva firmato, tra l’altro, alcune delle Ferrari che hanno fatto la storia dell’auto. Il maestro di una grande bottega artigiana del made in Italy oggi consegnata ai musei. Come forse era inevitabile.

Il tramonto della Pininfarina prende velocità agli inizi del nuovo millennio, quando gli eredi del mitico Pinin, con grande coraggio, non esitano ad investire il patrimonio di famiglia nel nuovo impianto di Cambiano con l’obiettivo di accelerare la crescita dell’azienda nel settore del design e della progettazione al servizio di tutti i marchi. Nel 2003 Andrea, all’epoca vice presidente della Confindustria, compie un altro passo che si rivelerà fatale: l’acquisto di Matra, la società francese del gruppo Lagardère nota per aver disegnato l’Espace per conto di Renault. Due mosse in controtendenza rispetto alla congiuntura del Bel Paese e, in particolare, di Torino, colpita dall’incipiente crisi di Fiat. La strategia di Andrea Pininfarina, che morirà cinque anni dopo in un incidente stradale nei pressi dello stabilimento, consiste nel compensare la crisi della produzione diretta, che affligge tutti i carrozzieri, con un aumento dell’impegno nell’engineering. Non sarà, ahimè, una scommessa fortunata. L’evoluzione del mercato e delle tecnologie ha spinto le grandi case dell’auto a realizzare in casa le soluzioni di stile sempre più integrate al processo di produzione, senza concedere ai carrozzieri le “briciole”, ovvero i prototipi e le piccole serie su cui era cresciuta la pretesa industriale di Pininfarina come di Bertone o di altri produttori in Europa ed in Usa. Nel mondo resisterà solo la canadese Magna Steyr oppure che, come Giorgio Giugiaro, saprà fare un saggio asso indietro: Italdesign si ritira dalla Borsa per poi confluire sotto le insegne di Volkswagen, di cui sarà fino a pochi mesi fa la “mente” creativa assieme all’ex Fiat Walter de Silva.

Al contrario, Pininfarina, una delle dinastie che hanno scritto la storia dell’industria (e della Confindustria) di casa nostra si avvierà sul viale del tramonto, nonostante la “pazienza” del sistema bancario, lento a capire la gravità del declino industriale, e i tentativi di risalire la china. Non ultimo il design dell’auto elettrica del gruppo Bolloré che non si tradurrà, come sperato, in commesse per riempire le linee di produzione di Grugliasco. Alla Pininfarina non resteranno, in pratica, altro che i clienti asiatici, prima i coreani, poi in cinesi e gli indiani. Non a caso, perché i produttori di quei Paesi hanno avuto bisogno del know how degli stilisti italiani (anzi, torinesi) per sviluppare le competenze già ben note tra produttori occidentali. Ma, si sa, gli allievi imparano presto nell’economia globale. E così gli indiani, ormai i migliori clienti dell’atelier Pininfarina, hanno deciso di procedere al suo acquisto. Una buona notizia per tutti, perché Mahindra & Mahindra ha tutti i numeri per sfruttare al meglio l’immagine e quel che resta del primato progettuale del gruppo torinese. Non basta dir che “l’azienda resta italiana, mentre i soldi non hanno passaporto” come ha detto al momento della cessione Paolo Pininfarina. D’ora in poi l’azienda di Cambiano sarà un po’ meno italiana, ma più globale, come è giusto che sia.

L’ingresso nei partner indiani non è una perdita per il made in Italy, bensì un salvataggio provvidenziale. Resta il rimpianto di non aver saputo comprendere per tempo l’evoluzione dei mercati o di non aver messo assieme competenze che non più tardi di 15-20 anni fa erano all’avanguardia nel mondo. E così Bertone ha ammainato la bandiera (e Fca ha rilevato lo stabilimento di Grugliasco, uno dei più moderni per la verniciatura), Italdesign è entrato nel tunnel della crisi Volkswagen, che probabilmente taglierà bruscamente gli investimenti già previsti, Pininfarina entra nell’orbita del gruppo Mahindra che non nasconde le sue ambizioni sia dentro che fuori il mondo dell’auto.

Forse saranno gli indiani a sviluppare in chiave globale le qualità intrinseche del gruppo made in Italy, finora protagonista di incursioni sporadiche furi dal mondo delle quattro ruote. Eppure per la Pininfarina come per altre aziende ex artigiane del Bel Paese la strada obbligata è quella di mantenere lo spirito antico entro un corpo nuovo adattandosi all’elettronica come i nostri bisnonni seppero fare con la meccanica.



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