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Piscine islamiche? No, grazie

A macchia di leopardo, le comunità islamiche italiane avanzano alcune richieste in nome della propria religione. Ha fatto notizia qualche giorno fa la domanda prestampata di esenzione dall’educazione musicale a scuola diffuso dal sito web “Civiltà islamica”, esempio tipico di salafismo che fa sorridere più che preoccupare. Sul Messaggero Veneto è affiorata invece una questione più delicata anche in virtù della sua maggiore diffusione: alcune donne musulmane fanno sapere di voler disporre di orari distinti per le proprie attività sportive, specificamente in piscina. Simili richieste vanno attentamente valutate prima di essere accolte. Le istituzioni possono sì tenere conto delle esigenze delle minoranze, ma non derogando da principi che vorremmo ritenere universali. In ballo, nel caso della piscina, c’è un pilastro come l’uguaglianza dei sessi, che le autorità dovrebbero semmai tutelare e promuovere.

Il peggior errore in cui si potrebbe cadere qui è ritenere di misurarsi con una istanza di tipo religioso. Più che con la fede, la tendenza a rifuggire la promiscuità rimanda ad una lettura generale delle relazioni sociali che non è scevra di valori politici. La ritroviamo non a caso al centro della proposta dei vari fondamentalismi islamici affacciatisi sulla scena della storia nel XX secolo. In nome di una interpretazione della religione che si pretende autentica, queste forze hanno dato vita ad una fiera reazione alla modernità e ai suoi principi basilari. L’attacco alla parità di genere è il cardine di una battaglia che, dove è stata vinta, ha generato mostri come la proibizione di uscire non accompagnate o di ricevere un’istruzione.

L’oscurantismo dei talebani o degli ayatollah non può naturalmente essere paragonato alle domande avanzate da cittadine in nome di presunti valori religiosi. Ma questi valori, ripetiamo, sono il frutto di una specifica interpretazione della religione che è indissociabile da un più ampio programma politico. Programma che si manifesta in superficie con la domanda di compartimentazione degli spazi ma che poggia su una base più profonda: una concezione della donna non come persona ma come corpo che, per non sollecitare indebiti desideri nell’altro sesso, va tenuto a debita distanza. E la radice che ritroviamo nel velo integrale, sia esso il niqab o il burqa. Niente di più lontano dalla visione a noi cara della donna come essere senziente che arricchisce la società con il suo ingegno più che con le sue forme.

Porre una cortina tra uomini e donne negli spazi pubblici significa rinunciare alla comunicazione tra le due sfere dell’umanità proprio laddove più facilmente entrano in contatto. È negli ambiti comuni che le prospettive possono incrociarsi, a vantaggio di tutti. Permettere a una minoranza ormai consistente come quella islamica di fare a meno di due elementi fondamentali come l’uguaglianza e l’incontro non va a beneficio né dei musulmani né della collettività. Si generano semmai delle fratture in cui possono insinuarsi aspetti ancor più indesiderabili.

L’immigrazione in Italia a è giunta a uno stadio in cui non si possono più rimandare le domande ultime sul tipo di società che desideriamo. Una società aperta, inclusiva, ma che non ripudi sé stessa. Sarebbe prudente prendere spunto dai Paesi dove il fenomeno migratorio ha alle spalle decenni di rodaggio. Laddove si è tollerata l’intrusione di concezioni diametralmente opposte a quelle della maggioranza si è creata una spaccatura insanabile tra le comunità, private dei ponti necessari a garantire la coesione di tutto l’insieme. Creare qui i ghetti che altrove hanno provocato incomprensioni e discordia non è né saggio né auspicabile.


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