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Libano, Renzi e le regole d’ingaggio della missione Unifil

Martedì 22 dicembre il premier Matteo Renzi si è recato a Beirut, per incontrare l’omologo libanese Tammam Salam e per visitare il contingente italiano della missione Unifil, dispiegato a sud del fiume Litani, al confine con Israele.

La missione Unifil è intervenuta per la terza volta dopo il conflitto israelo­-libanese del 2006, dispiegando una forza d’interposizione in ottemperanza alla risoluzione 1701 dell’Onu. L’Italia schiera uno dei contingenti più numerosi, con circa 1100 uomini, e dal 2012 ha il comando di tutta la forza internazionale, che raggiunge le diecimila unità. Il Comando del Settore Ovest ha sede presso la base Millevoi di Shama, altre unità sono dislocate tra le basi di Naqoura, al­Mansouri e quelle avanzate lungo la “Blue Line”.

L’Italia ha un’importante tradizione d’intelligence in Libano, dai tempi del Sismi, ma vi sono alcuni recenti episodi che hanno attirato le attenzioni degli addetti ai lavori. Solo a novembre, si sono verificati tre attacchi ai militari italiani. È possibile che provengano da elementi di Hezbollah o da clan locali che controllano traffici illeciti e non vogliono essere disturbati dai pattugliamenti.

All’inizio del mese, due veicoli civili hanno inseguito un mezzo con a bordo un ufficiale, contro cui hanno sparato prima di dileguarsi. L’undici novembre, due Lince sono stati circondati in un villaggio e alcuni locali hanno attaccato il soldato in torretta con un coltello. Gli italiani hanno sparato in aria per disperdere la folla. Il 17 infine, un Lince di pattuglia nei pressi di Naqoura è stato bloccato da due fuoristrada e attaccato a colpi di AK­47. Il mitragliere italiano in ralla, per rispettare le regole d’ingaggio, ha dovuto rispondere al fuoco solo con la pistola, sparando prima in aria e poi ai piedi degli aggressori, che non si sono fermati. Gli italiani si sono quindi chiusi nel mezzo blindato e gli assalitori sono saliti sul tetto, rubando la mitragliatrice e giubbotti antiproiettile da bagagliaio esterno.

La dottrina italiana, per l’Operazione Leonte come nelle altre missioni internazionali, è quella di mantenere un basso profilo, per evitare escalation. Alcuni esperti riconoscono che un approccio aggressivo può provocare una reazione ancora più violenta. Una filosofia condivisibile, ma che incontra dei limiti di buonsenso secondo alcuni addetti ai lavori: “Se per evitare ritorsioni, i nostri soldati devono non solo essere umiliati, ma persino minacciati con coltelli e a colpi di kalashnikov, forse è il caso di rivedere le regole d’ingaggio, prima che si verifichi un grave incidente – dice un addetto ai lavori – A questa revisione deve unirsi un’attività diplomatica e d’intelligence per prevenire futuri attacchi”.

Chi stabilisce queste regole? Per le missioni dell’Onu, è il Department for Peacekeeping Operations. A queste rules of engagement (ROE) si aggiungono i cosiddetti caveat. Si tratta di specifiche limitazioni entro cui possono operare i vari contingenti nazionali, una sorta di interpretazione governativa alle regole d’ingaggio comuni.

In Libano le specifiche regole in vigore sono riservate, per ragioni di sicurezza. Ma si fondano sui principi di uso proporzionato della forza, diritto all’autodifesa e difesa dei civili. Occorre renderle più flessibili, secondo diversi osservatori. Per fare un esempio: rispondere al fuoco di kalashnikov con una mitragliatrice leggera dovrebbe considerarsi lecito e proporzionato alla minaccia. Per questo c’è chi in ambienti militari auspica che il governo possa rivedere alcune regole di ingaggio del comando operativo italiano capitanato dal generale Portolano.


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