Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo di Marco Bertoncini uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi
Nel comportamento degli imputati nel processo Vatileaks 2 possiamo leggere una palese contraddizione. Se contestano la giustizia vaticana, perché si presentano al processo, si lasciano interrogare, designano i propri legali?
Lo stesso tribunale ha rilevato questa incoerenza. Leggiamo il comunicato della sala stampa della santa Sede emesso dopo l’ultima udienza: “È stata rifiutata l’eccezione, presentata dalla difesa della Signora Chaouqui, per mancanza di giurisdizione del Tribunale, trattandosi di fatti avvenuti in Italia e di una persona che si è dichiarata rifugiata politica in Italia. Il Collegio ha chiarito come le leggi attualmente in vigore attribuiscono senza incertezza la giurisdizione al Tribunale Scv e ha osservato che la Signora Chaouqui si è presentata e si è costituita agli inquirenti e davanti al Tribunale riconoscendo anche di fatto tale giurisdizione”.
Il riferimento allo status di “rifugiato politico” deriva dall’articolo 22 del trattato lateranense: “A richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data dalla medesima o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane”.
La Chaouqui, però, come correttamente rimarcato dal tribunale d’Oltretevere, si è presentata davanti al promotore di giustizia, ha perfino patito la custodia cautelare, è andata al processo (la prima volta in veste dimessa di penitente, lontana da sue fascinose immagini circolanti in rete). Difficile potersi definire “rifugiata”, obiettivamente.
Diversa è la situazione di Vallejo Balda, anche se non è chiaro se sia o fosse cittadino vaticano. Identica sarebbe invece la condizione dei due giornalisti. Se costoro non hanno contestato la giurisdizione del tribunale della Città del Vaticano, standosene di qua delle Mura leonine, la ragione è semplice: hanno bisogno di opportuna pubblicità.
Agli occhi di decine di milioni di osservatori esterni o distratti o genericamente interessati alla vicenda, appaiono come martiri della libertà di stampa.
Ed è inutile che la Santa Sede si sbracci a sostenere che è loro imputato un reato quale la diffusione di segreti di stato, per usare un’espressione impropria ma rispondente alla fattispecie loro contestata: la percezione comune è di voler punire la pubblicazione di documenti. I due giornalisti sanno bene che è per loro produttivo sfidare anche la teorica incarcerazione recandosi oltre le mura leonine. Non si dice che appaiano come un paio di Giordano Bruno del terzo millennio, ma insomma ci si può andare vicino.
Pure la Chaouqui ha tutto da guadagnare dal processo, in termini di pubblicità. Tuttavia può anche darsi che, presentandosi davanti agli inquirenti vaticani, non si attendesse né gli arresti né la richiesta di rinvio a giudizio.
Dopo di che, ha eccepito il proprio status di rifugiata politica, a quanto si capisce per consiglio di Giulia Bongiorno, avvocata di fiducia esterna (se così si può definire).
A quest’ultimo riguardo va notato che la Corte d’appello vaticana, respingendo la designazione della stessa Bongiorno, ha senz’altro esercitato una propria prerogativa, ma sul piano dell’immagine ha commesso un grave svarione.
Infatti la stessa Bongiorno mesi prima era stata ammessa a difendere un imputato davanti al tribunale vaticano. Perché prima sì, poi no?