L’infelice battuta del giornalista Gad Lerner, che sul suo profilo Facebook ha espresso rammarico per la mancata presenza di Salvini e Razzi in Corea del Nord al momento dello scoppio della bomba ad idrogeno[1], è l’ennesimo segnale di un dibattito pubblico online segnato da un generale decadimento e da una totale assenza di quella dimensione discorsiva e di confronto di idee che negli scorsi decenni era stata il cuore del funzionamento della sfera pubblica.
Il continuo ricorso ai social network per i dibattiti di natura sociale e politica ci pone negli ultimi tempi di fronte all’insorgere di vere e proprie campagne di odio nei confronti di singoli personaggi o categorie politiche, come testimoniato dai racconti della Presidente della Camera Laura Boldrini o, a livello globale, dalle campagne di aggressione mediatica nei confronti dell’Occidente cristiano portate avanti dai gruppi islamici impegnati nella cyberjihad su Facebook e Twitter.
Di fronte alle sfide poste dalle nuove dinamiche della comunicazione online, i proprietari delle piattaforme di condivisione e scambio di informazioni si sono ritagliati il ruolo di unici giudici della libertà di espressione in Rete: è lo stesso management di Twitter, ad esempio, a decidere se rimuovere dalla propria piattaforma presunti contenuti di propaganda terroristica, scatenando le ire mediatiche e le sanzioni del regime turco, quando non si adegua alle sue richieste di rimozione, come è accaduto di frequente negli ultimi anni[2].
Una tendenza che neppure l’Europa sembra intenzionata a fermare, laddove, a conclusione di una recente indagine conoscitiva sulle piattaforme digitali, la Commissione Europea ha lasciato trapelare la possibilità di introdurre in capo ai cosiddetti intermediari della rete un obbligo di sorveglianza e filtraggio dei contenuti pubblicati da terzi[3].
Delicate decisioni sulla libera manifestazione del pensiero online verrebbero così sempre più lasciate nelle mani dei deciders, giovani esperti, responsabili della content policy delle big companies della Rete, le cui scelte stanno diventando sempre più importanti nelle democrazie europee, redendo di fatto Google, Facebook e Twitter i veri regolatori del pluralismo delle idee in rete nel Vecchio Continente.
Partendo da un ritratto di queste nuove figure professionali, Francesco Marrazzo, dottore di ricerca in Sociologia e ricerca sociale e docente a contratto di Marketing e nuovi media presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi Federico II di Napoli, nel suo primo saggio, intitolato appunto “Deciders. Chi decide sulla rete”, pubblicato a luglio 2015 nella collana Universitaria dell’editore partenopeo Dante&Descartes, da un interessante contributo sociologico alla complessa tematica della regolamentazione di Internet.
A partire, rispettivamente, dagli attacchi di odio via social network ad importanti esponenti politici ed istituzionali, e dalla recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, che permette ai singoli cittadini di vedere eliminati dai risultati di una ricerca su Google notizie e dati non rispondenti al proprio status attuale, l’autore analizza le dinamiche dell’hate speech, inteso come nuova forma di politicità in rete, e il tema del diritto all’oblio, con le relative conseguenze sulla costruzione sociale della memoria individuale e collettiva.
Proprio questi due fenomeni sembrano prefigurare – secondo l’autore – una nuova funzione dei maggiori intermediari della rete, che si trovano sempre più spesso a dover decidere in maniera autonoma di eliminare o “moderare” i contenuti prodotti dai propri utenti, o generati dai propri sistemi di funzionamento, in una continua dialettica tra algoritmo e intervento della componente umana.
L’interessante contributo del giovane sociologo napoletano ha il merito di analizzare le reali dinamiche insite dietro questioni e temi (su tutti l’odio in rete) spesso affrontati con paure e reticenze dettate dalla non perfetta comprensione del fenomeno, e pone in primo piano, quando affronta le (residue) prospettive di intervento strategico da parte del potere pubblico, la necessità di una nuova visione strategica del Web 2.0.
Non a caso, nell’epilogo finale del saggio, l’autore propone di attribuire ai mass media (a partire dal servizio pubblico televisivo) una fondamentale funzione di educazione e guida dei cittadini nei meandri del nuovo ecosistema digitale, in vista della dirompente rivoluzione dell’Internet delle cose, ma soprattutto per contribuire alla rinascita di una sfera di dibattito pubblico realmente discorsiva e funzionante.
[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/06/bomba-in-corea-del-nord-gad-lerner-peccato-che-salvini-e-razzi-non-si-trovassero-nella-loro-patria-elettiva-critiche-su-facebook/2352724/
[2] http://www.primaonline.it/2016/01/07/222818/la-turchia-multa-twitter-per-non-aver-rimosso-alcuni-contenuti-propagandistici-il-social-network-fa-partire-una-querela/?utm_source=Primaonline+Report&utm_campaign=2b70659d5b-Prima_Pagina10_22_2014&utm_medium=email&utm_term=0_971801ff87-2b70659d5b-273397369
[3] http://www.corrierecomunicazioni.it/digital/38852_internet-piu-sicura-scoppia-il-caos-sulle-nuove-regole.htm