Febbraio, e i risultati delle prime primarie, porteranno consiglio a Mike Bloomberg, 73 anni, magnate dell’informazione ed ex sindaco di New York, che, entro i primi di marzo, cioè al più tardi dopo il Super-Martedì del 1° marzo, deciderà se scendere in lizza come indipendente. Lo scriveva, ieri, il New York Times, dando spessore a voci già circolate e già riprese da questo sito.
Come se 15 candidati non bastassero -12 repubblicani e tre democratici-, eccone dunque spuntare, anzi rispuntare un 16°: l’indipendente, l’uomo di mezzo, che potrebbe, però, risultare quello giusto. Bloomberg è una sorta di mostro di Lochness di questa campagna, perché periodicamente riaffiora. Inizialmente ipotizzato come contenente repubblicano, ora starebbe seriamente valutando se scendere in lizza per conto suo, cioè fuori dagli apparati dei partiti.
L’ex sindaco di New York per tre mandati dal 2002 al 2014 – come nessun altro mai -, è pronto – dicono fonti a lui vicine citate dal NYT – a metterci un miliardo di dollari del suo per arrivare alla Casa Bianca; e vorrebbe prendersi tempo per decidere fino a inizio marzo, giusto per capire come vanno le primarie (il 1° marzo ci sarà il Super-Martedì). Intanto, commissiona sondaggi, i cui dati sarebbero fin qui incoraggianti: un altro sarà fatto dopo le primarie in Iowa e New Hampshire. E una squadra di esperti traccia il programma e la stratergia. Dei soldi, non deve preoccuparsi: per Forbes, è il 14° uomo più ricco del pianeta –quel ‘poveraccio’ di Donald Trump è soltanto 72°-.
Repubblicano non ortodosso, con inclinazioni democratiche, e sindaco d’una città fortemente democratica, Bloomberg, dopo essere stato eletto successore di Rudolph Giuliani, s’è man mano allontanato dal partito e dal 2007 si colloca come indipendente. Ora, lo preoccupano – sempre secondo le fonti a lui vicine citate dal NYT – due preoccupazioni: lo strapotere di Trump fra i repubblicani e l’infittirsi fra i democratici delle difficoltà di Hillary Clinton.
Se la candidatura del magnate dell’editoria dovesse essere confermata, sarebbe una cattiva notizia per entrambi gli schieramenti. Con il suo profilo, infatti, Bloomberg, un ebreo che ama essere considerato “un filantropo”, attirerebbe molti voti dell’elettorato conservatore e farebbe concorrenza a Trump sul terreno del successo in affari e pure della competenza imprenditoriale.
Ma l’ex sindaco è anche capace di ottenere consensi tra ‘centristi’ e indipendenti, sottraendoli, così, al candidato democratico; e, inoltre, è popolare soprattutto a New York e nel New England, serbatoi di voti tradizionali di progressisti e ‘liberal’.
Le notizie del NYT ridanno corpo al fantasma del terzo uomo che aleggiava sulla campagna fino all’autunno scorso, quando sia Trump che l’ex neurochirurgo nero Ben Carson, due ‘corpi estranei’ al partito repubblicano, smentirono formalmente l’intenzione loro attribuita di correre da soli se non avessero ottenuto la nomination. Ipotesi di per sé improponibile per Carson, perché troppo costosa, ma percorribile per Trump, che soldi ne ha (anche se meno di Bloomberg).
A gettare un velo di dubbio, c’è la consapevolezza che il terzo uomo, negli Usa, non vince mai, ma piuttosto fa perdere. Nel 1992, il miliardario Ross Perot, che per molti versi ricorda Trump, non s’impose in nessuno Stato, ma sottrasse al presidente uscente George Bush i voti che gli servivano per battere Bill Clinton. Nel 2000, il verde Ralph Nader, con un seguito modesto a livello nazionale, causò la sconfitta di Al Gore –e il successo di Bush figlio- con migliaia di voti in Florida ‘sottratti’ proprio a Gore, cui ne sarebbero bastati 258 in più in quello Stato per conquistare la Casa Bianca. Quanto a John Anderson, ricco ‘liberal’ in corsa nel 1980, contribuì alla sconfitta di Jimmy Carter, ma la vittoria di Ronald Reagan fu più netta di ogni recriminazione.
Questa volta, però, le cose potrebbero essere diverse soprattutto se democratici e repubblicani dovessero presentare candidati fortemente polarizzati, come Sanders ‘il socialista’ e Trump ‘il populista’ o anche Cruz ‘il Tea Party’. In questo caso, si aprirebbe al centro una falla che il profilo di Bloomberg può agevolmente colmare. E se in corsa ci fosse una Hillary ‘debole’, Bloomberg potrebbe danneggiare più lei che Trump, i cui sostenitori sono irredimibili: l’ex sindaco è a favore del controllo delle armi e ha posizioni moderate e razionali in tema di immigrazione ed economia, tesi che piacciono a chi vota democratico. A New York, lo chiamavano il ‘sindaco badante’ perché attento alla salute dei suoi cittadini, con campagne contro il fumo, i cibi nocivi, le bevande gassate, e per l’ambiente.