Se chiedeste alle imprese europee cosa vorrebbero che succedesse in questo 2016 la risposta sarebbe molto semplice: una domanda robusta, capace di tirarli fuori dalle secche di una crisi che ancora, ventotto trimestri dopo l’inizio, non è riuscita a recuperare i livelli ante 2008.
Se poi si chiede alle imprese europee se pensano che le condizioni creditizie siano fra le cause di tale debolezza, si scopre che il credito viene considerato l’ultimo dei problemi, letteralmente. Certo, fra i tanti ostacoli c’è anche il costo del lavoro, al settimo posto delle preoccupazioni delle imprese, ma sta a metà classifica, seguito a ragionevole distanza dalla regolamentazione del lavoro, al decimo. Il costo del credito sta all’ultimo posto: al quattordicesimo. Il che può essere interpretato come la prova che le politiche della Bce hanno funzionato, nel senso che il credito non è praticamente più un problema. Oppure che tale problema in qualche modo è stato sopravvalutato.
Questa informazione non si evince dal box del bollettino economico della Bce di dicembre da dove ho tratto queste informazioni. Ma per il resto l’approfondimento si rivela molto utile perché è il frutto di un’indagine campionaria svolta su 74 grandi aziende che rappresentano nell’insieme il 2,5% circa dell’occupazione complessiva e il 3% della spesa totale del settore privato per investimenti diversi da quelli immobiliari nel 2014 che, al di là degli aspetti quantitativi, rivela lo stato d’animo dei nostri imprenditori, ossia ciò che pensano di fare assai prima di ciò che faranno.
E poiché l’economia, a ben vedere, è cosa squisitamente psicologica, l’indagine è strumento utile per capire cosa passi per la testa di questi Grandi Committenti che, inevitabilmente, ha effetti sulla nostra vita.
I risultati non sono particolarmente entusiasmanti. “Gli intervistati segnalano nel complesso un incremento dei budget per gli investimenti tra il 2014 e il 2015”, nota la Bce. E tuttavia “quasi la metà dei partecipanti all’indagine avrebbe mantenuto il proprio budget pressoché invariato”. Un po’ meglio hanno fatto le aziende che investono fuori dall’aria euro, per lo più nei paesi emergenti, che quindi continuano ad attirare l’attenzione più di quanto non faccia casa nostra.
La seconda osservazione poco entusiasmante è che “la quota di gran lunga più consistente dei budget di investimento è stata assorbita dagli investimenti in immobilizzazioni materiali, mentre le voci ricerca e sviluppo (R&S) e immobilizzazioni immateriali hanno costituito una percentuale molto inferiore”. Quindi si investe per consolidare il capitale, più che per innovarlo. Che poi è quello che servirebbe di più. “Tipicamente, le imprese che hanno effettuato cospicui investimenti in R&S hanno tendenzialmente sviluppato nuove tecnologie in grado di migliorare la capacità produttiva, per rispondere a prescrizioni rigorose in materia regolamentare o di ambiente oppure per tutelare diritti di proprietà intellettuale“.
Nei numeri, viene fuori che “circa il 41 per cento di tali investimenti sarebbe stato destinato alla sostituzione degli stock di capitale esistente, piuttosto che a novità o progressi tecnologici”.
La terza osservazione è che “i vincoli finanziari legati al costo del finanziamento o alla facilità ad accedervi sono stati raramente considerati ostacoli importanti”. Il credito non è un problema, insomma. O almeno non più. “Nel complesso le risposte sono coerenti nell’indicare che, al momento, gli investimenti dell’area dell’euro risentirebbero soprattutto di fattori dal lato della domanda, connessi all’attuale debolezza di quest’ultima e alle sfavorevoli prospettive di crescita”.
Ovviamente non mancano i riferimenti “alle politiche strutturali e di bilancio in alcuni paesi dell’area” che “eserciterebbe una significativa azione di freno sugli investimenti”. E poi gli imprenditori lamentano “rigidità strutturali e vincoli regolamentari, come l’elevato costo del lavoro, la regolamentazione dell’impiego, gli oneri burocratici, norme urbanistiche e le rigidità presenti nei mercati dei beni e servizi”. Va detto che a lamentare queste circostanze sono in maggior parte le aziende che investono fuori dall’euro, che infatti annoverano fra gli ostacoli più forti “la regolamentazione dei mercati del lavoro, il costo del lavoro e la burocrazia, insieme alle deboli prospettive di crescita e all’incertezza sulle politiche”.
Interrogati sui cambiamenti che reputano necessari per rilanciare gli investimenti, gli imprenditori sognano “riforme dei mercati del lavoro e dei beni e servizi a livello nazionale, nonché una maggiore armonizzazione fiscale”, visto che “in un contesto di più marcata variabilità della domanda, si avvertirebbe sempre più l’esigenza di politiche che migliorino la flessibilità del lavoro e mitighino i rischi connessi alle assunzioni a tempo indeterminato, oltre che i relativi costi”.
In dettaglio, “è stato sottolineato l’impatto negativo dell’elevato costo del lavoro sulla competitività nell’area dell’euro”. “Diversi partecipanti all’indagine hanno infatti invocato una riduzione degli oneri sociali e del costo degli esuberi di personale, misure che contribuirebbero a ripristinare la competitività nell’area e incoraggiare così una più solida attività di investimento”. Dulcis in fundo, gli intervistati auspicano “riforme dei mercati dei beni e servizi che accrescano la concorrenza all’interno dell’UE e consentano alle imprese di beneficiare di maggiori economie di scala e di scopo, aumentando così i rendimenti potenziali degli investimenti”. Purtroppo l’analisi Bce non estende l’approfondimento fino a provare a stimare gli effetti che tali provvedimenti avrebbero sulla domanda.
Magari, per le imprese, sarebbe stata una sorpresa.
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