Il “bail in”, cioè il salvataggio di una singola banca a spese dei titolari depositi in conto corrente e degli obbligazionisti è antigiuridico, perché contrario a qualsiasi principio di diritto. E antigiuridiche, quindi illecite, sono le disposizioni che lo prevedono, cioè la direttiva comunitaria e la legge nazionale applicativa, in vigore dal 16 gennaio scorso. Le giustificazioni addotte sono inconsistenti e contraddittorie e il marchingegno, oltre ad essere iniquo, è anche ingiusto perché mette nei guai i risparmiatori italiani abolendo l’aiuto pubblico alle banche mentre, in precedenza, i risparmiatori di altri Paesi ne hanno ampiamente goduto. Come se non bastasse, il ”bail in” è, rispetto all’ordinamento italiano, del tutto incostituzionale, per contrasto con l’art. 47 Cost. , secondo il quale “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”. Un così stridente e violento vulnus alla nostra Carta fondamentale dovrebbe indurre i nostri governanti ad esigere una revisione del meccanismo da parte delle Istituzioni europee e a suggerire alle stesse una profonda riforma del sistema bancario finalizzazione dello stesso ad una preminente funzione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali.
IL CONTESTO NORMATIVO
Il bail in, cioè il salvataggio all’interno della singola banca è previsto e regolato dalla Direttiva dell’Unione Europea 2014/59/UE del 15 maggio 2014 detta BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) e, per quel che concerne l’Italia, dalla normativa di recepimento della direttiva stessa, contenuta nel Decreto legislativo 16 novembre 2015 n.180, emanato dal Governo in attuazione della delega legislativa di cui alla legge 9 luglio 2015 n.114 ed entrato in vigore il 16 gennaio 2016.
Le disposizioni contenute nei due testi normativi prevedono che, in caso di dissesto della singola banca, non si perviene al suo fallimento o alla sua liquidazione coatta amministrativa, bensì alla sua “risoluzione”, consistente in un processo di ristrutturazione e ricapitalizzazione sotto l’egida dell’Autorità preposta al settore, che per noi è la Banca d’Italia.
Per attuare la risoluzione (vocabolo al quale finora la nostra lingua attribuiva significati ben diversi), l’Autorità può scegliere tra varie misure, quali la vendita delle attività ad un privato, il trasferimento delle attività e passività ad un’entità da essa stessa gestita (bridge bank) o ad un veicolo (bad bank) che ne gestisca la liquidazione in tempi ragionevoli o, infine, ricorrendo al “bail in”, cioè al salvataggio a carico di chi orbita all’interno della banca stessa.
A quest’ultimo strumento, l’Autorità di risoluzione può fare ricorso anche senza avere prima esperito le altre misure previste dalla legge.
In concreto, si fa pagare il costo del riavvio della banca ai suoi azionisti e, a seguire, ai titolari di obbligazioni emesse dalla banca e quindi suoi creditori nonché ai titolari di depositi non protetti dal vigente sistema di garanzia, e quindi di importo superiore a 100.000 euro.
Nei riguardi degli azionisti e dei possessori di obbligazioni emesse dalla banca, si procede alla riduzione del valore delle azioni e delle obbligazioni, in correlazione con l’azzeramento del capitale e a convertirle in nuove azioni che assorbono le perdite ed assicurano un’adeguata ricapitalizzazione, sufficiente a mantenere la fiducia del mercato e a far riprendere all’istituto le attività bancarie.
In caso di insufficienza delle operazioni suddette, si fa ricorso ai depositi di importo superiore a 100.000 euro, destinando gli importi eccedenti tale limite ad assorbimento delle perdite residue e quindi al capitale, cioè agli azionisti vecchi e nuovi e spossessandone, invece, i titolari dei depositi.
LE PRETESE RAGIONI MACROECONOMICHE DEL SALVATAGGIO POSTO A CARICO DI POCHI
Nella normativa citata è previsto che tutto quanto descritto nel precedente paragrafo deve accadere senza alcun intervento finanziario del settore pubblico, salvo casi eccezionali (leggi Banca Etruria e simili) così pure delle altre banche e, con esse, del resto del sistema bancario, Banca Centrale Europea e Banca d’Italia comprese. E ne restano immuni anche i titolari di depositi presso altre banche, italiane o di altri Stati membri o di Stati terzi.
Le giustificazioni di questo bizzarro e cinico marchingegno si possono leggere negli oltre cento “considerando” che precedono il testo della Direttiva europea ed in un mellifluo documento informativo intestato a “Banca d’Italia-Eurosistema”, diffuso via Internet nel dicembre 2015 col titolo “Che cosa cambia nella gestione delle crisi bancarie”.
Le giustificazioni addotte sono le seguenti:
Le nuove norme consentono di gestire le crisi bancarie in modo ordinato attraverso strumenti più efficaci e l’utilizzo di risorse del settore privato, riducendo gli effetti negativi sul sistema economico ed evitando che il costo del salvataggio gravi sui contribuenti.
Ed infatti, si soggiunge, la crisi finanziaria ha dimostrato che in molti paesi dell’Unione Europea gli strumenti di gestione delle crisi bancarie non erano adeguati, soprattutto di fronte alle difficoltà di “intermediari con strutture organizzative complesse e con una fitta rete di relazioni con altri operatori finanziari”.
Per evitare che la crisi di una singola banca si propagasse in modo incontrollato (c.d. “contagio”), sono stati necessari ingenti interventi pubblici che, se da un lato hanno permesso di evitare danni al sistema finanziario e all’economia reale, hanno però comportato elevati oneri per i contribuenti e in alcuni casi compromesso l’equilibrio del bilancio pubblico.
Ed è stato inoltre molto difficile coordinare gli interventi delle singole autorità nazionali per gestire le difficoltà di intermediari che operavano in più paesi.
La risoluzione, invece, è un meccanismo gestito da autorità indipendenti che, attraverso l’utilizzo di tecniche e di poteri offerti ora dalla BRRD, mira ad evitare interruzioni nella prestazione dei servizi essenziali offerti dalla banca (ad esempio, i depositi e i servizi di pagamento), a ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e a liquidare le parti restanti.
Tra le tecniche ed i poteri offerti dalla BRRD v’è anche il ”bail in” e quindi lo stesso è applicabile da parte delle autorità di risoluzione. Per tale procedura vengono utilizzate risorse private, ma non dell’intero settore bancario bensì solo di quella parte di esso che, nella veste di azionista, obbligazionista o depositante, si trova ad essere coinvolto nelle sorti della singola banca in difficoltà.
I punti fermi di queste giustificazioni sono dunque i seguenti: le banche sono entità che offrono servizi essenziali ai privati e perciò vanno comunque salvate dai pubblici poteri, ma non più attraverso finanziamenti che graverebbero sui contribuenti, bensì attraverso norme che spostano il costo del salvataggio sul settore privato, nel senso di cedere l’entità al privato che sia interessato a gestirla e a trarne profitto ovvero nel senso di imporre gli oneri del soccorso a quegli sfortunati privati che, nella veste di azionisti, obbligazionisti o depositanti, si trovino ad essere comunque coinvolti nelle sorti della singola banca.
Di conseguenza, altro punto fermo delle giustificazioni è che del salvataggio non si deve dare carico il settore bancario nel suo complesso bensì soltanto quello spicchio di esso che gravita intorno alla specifica banca in difficoltà.
LA NON CONDIVISIBILITÀ DI DETTE GIUSTIFICAZIONI
Le giustificazioni addotte non sono condivisibili, in generale e con specifico riferimento al “bail in”, per i motivi che seguono:
aa) sarà anche vero che la crisi finanziaria ha dimostrato l’inadeguatezza dei preesistenti strumenti di gestione delle crisi bancarie, ma è anche vero che la crisi finanziaria è stata per la maggior parte provocata proprio da bolle speculative dovute a disinvolte iniziative nate all’interno del sistema bancario nel suo complesso e nelle sue interconnessioni o comunque da esso favorite o non contrastate.
bb) Pertanto – anche a voler prescindere dal mancato “mea culpa” da parte del sistema bancario medesimo e da parte di chi, come la BCE e le Banche Centrali avrebbe dovuto esercitare sullo stesso i meccanismi di vigilanza preesistenti, per quanto timidi e “prudenziali” – è sicuramente errato e sommamente ingiusto lasciare ora il sistema bancario nel suo complesso del tutto immune da obblighi od oneri nei riguardi delle singole banche e soprattutto nei riguardi di chi, come ad esempio i depositanti, non hanno alcuna colpa di quanto accaduto ed hanno avuto solo la sfortuna di avere aperto un conto corrente presso una banca, più sregolata o meno scaltra di altre, oppure meno protetta dal sistema.
cc) Un sistema che, come ben si sa e come espressamente viene confermato dai “considerando” della BRRD e dall’Informativa di Bankitalia, è cosi complesso, così articolato nelle realtà economiche dei vari Paesi e così fittamente correlato con i Governi e con altri possenti operatori finanziari da rendere estremamente difficoltoso, se non addirittura impossibile, applicare i preesistenti strumenti di gestione delle crisi bancarie e il coordinamento tra le autorità nazionali a ciò preposte. Per cui, in definitiva, la soluzione più semplice e indolore per i potenti è sembrata essere quella di lasciare in pace il sistema bancario e vedere di salvare la singola banca, anche a spese di qualche malcapitato risparmiatore o correntista.
cc) Ed inoltre, sarà anche vero che negli anni scorsi vi sono stati ingenti interventi pubblici con danni per i bilanci statali ed oneri per i contribuenti, ma è anche vero, però, che la stessa Direttiva precisa che ogni banca svolge un servizio essenziale per la comunità civile: se così è, più che giustificato sarebbe ancora l’intervento delle pubbliche finanze, per aiutare la singola banca in difficoltà a ripristinare la sua capacità di rendere quell’importante servizio alla comunità dei cittadini, e quindi, in ultima analisi, ai contribuenti.
dd) A tale riguardo, va altresì rilevato che, dalla nota in calce alla pag.2 dell’Informativa della Banca d’Italia, risulta che in Italia “il sostegno pubblico è stato di circa 4 miliardi, tutti oramai restituiti”, il che significa che il bilancio pubblico ha recuperato gli esborsi erogati a sostegno delle banche, per cui nessun “vulnus” ne è, in definitiva, derivato alle finanze del nostro Stato ed ai nostri contribuenti. Ed altrettanto potrebbe dirsi anche per gli altri Stati membri, qualora anch’essi, come è probabile, abbiano previsto la restituzione del sostegno concesso alle loro banche in difficoltà.
ee) E’ sorprendente, poi, che, tanto a livello di direttiva comunitaria quanto a livello di legge nazionale, si sia trascurato di considerare che, per effetto degli interventi statali di cui sopra, un gran numero di banche degli Stati membri ed anche un certo numero di banche italiane, ha usufruito di aiuti pubblici e che, quindi, negarli ora alle altre banche in difficoltà significa violare il principio della par condicio nella concorrenza e nel libero mercato, essenziale per la convivenza europea.
ff) Altrettanto sorprendente è, per gli stessi motivi, che non si sia previsto, per le banche che hanno beneficiato dell’aiuto pubblico, l’obbligo di contribuire al salvataggio delle banche in difficoltà che non ne hanno beneficiato e che, in base alla nuova normativa, non possono più ottenere aiuti pubblici, pur trovandosi nelle medesime condizioni in cui a suo tempo versavano le banche aiutate dai rispettivi Governi. Un obbligo del genere dovrebbe essere imposto anche alle banche beneficiarie che abbiano restituito l’aiuto ricevuto, dal momento che quest’ultimo ha comunque sortito l’effetto di rimetterle in sesto.
gg) Infine, non si comprende perché non sia stato previsto che, prima di dare corso al “bail in”. l’Autorità di risoluzione debba accertarsi se vi siano anche minime possibilità di recupero delle c.d. “sofferenze” della banca, attraverso ingiunzioni di pagamento dirette ai debitori inadempienti ed il pignoramento dei loro beni.
hh) Ciò consentirebbe, tra l’altro, di verificare se l’iscrizione di tali sofferenze tra le perdite che hanno determinato lo stato di dissesto non sia dovuto ad errori di valutazione sullo stato di solvibilità del debitore ovvero ad illecite coperture a favore del debitore, di cui v’è prova in alcune situazioni di dissesto bancario venute di recente in evidenza.
ii) Infine, dulcis in fundo, c’è da chiedersi perché le due fonti normative non abbiano fatto riferimento alla possibilità di ricorso alle “riserve” – nell’ordine: la riserva frazionaria, la riserva obbligatoria, la riserva a garanzia dei conti correnti, la riserva legale e statutaria- che in buona sostanza sono tutti accantonamenti di denaro, presso la Banca Centrale o presso ciascuna banca, a garanzia della solvibilità della banca stessa e non intaccabili a copertura delle perdite.
PRIME CONCLUSIONI DA TRARRE
Da questo primo ordine di considerazioni, già appare evidente la necessità di rivedere d’urgenza la direttiva comunitaria e, di conseguenza, la legge nazionale, sia nelle loro linee generali sia con specifico riferimento al “bail in”, invocando le argomentazioni sopraesposte.
Sarebbe opportuna al riguardo un’iniziativa delle nostre autorità di Governo o anche di qualche forza parlamentare, mettendo da parte le pur fondate ma purtroppo sterili polemiche sul tema, quale quella secondo cui i nostri governanti ed i nostri rappresentanti nel Parlamento europeo avrebbero dovuto accorgersi per tempo dell’assurdità e dell’insostenibilità delle disposizioni che andavano maturandosi a livello europeo. Ovvero quella, fatta propria da esponenti del nostro Governo, secondo cui lEuropa ha chiuso le porte della stalla quando ormai la maggior parte delle banche degli altri Paesi, in particolare quelle tedesche, avevano già beneficiato degli ingenti aiuti erogati dai rispettivi Governi.
Si tratta di argomentazioni prive di rilevanza giuridica, sia a livello di diritto europeo che a livello di diritto nazionale. Ed entrambe sono prive, a ben vedere, di rilevanza politica, come dimostra la pochezza della polemica Renzi-Juncker.
Per l’Italia sarebbe molto più producente e calzante cogliere l’occasione per presentare, unitamente all’iniziativa intesa alla revisione della BRRD, alla quale si è sopra accennato, anche una proposta di generale revisione, a livello nazionale, europeo e, perché no, anche internazionale, del ruolo delle banche.
Oggi esse sono soprattutto, se non esclusivamente, mere intermediarie- non disinteressate – tra ambiti di interesse economico distinti, talora in contrasto, e comunque tutti finalizzati, anche in modo indiretto, al profitto o alla mera convenienza economica delle operazioni speculative in denaro. La loro identità andrebbe forse integrata, se non addirittura completamente sostituita, da una configurazione che consenta ad essere di proporsi come entità che si prefiggano, programmaticamente e nella concreta attività di raccolta del risparmio e di concessione del credito, finalità etico-sociali, in relazione alla pluralità delle esigenze settoriali, territoriali e generazionali delle realtà nelle quali e per le quali operano.
Tornando alle considerazioni di ordine più strettamente giuridico, deve rilevarsi che quanto osservato nei precedenti paragrafi può essere posto a base di ricorsi individuali o di class-actions contro i provvedimenti applicativi della normativa nazionale ed europea, anche nella prospettiva di un possibile deferimento delle questioni, come sopra poste, alla Corte Costituzionale, alla Corte di Giustizia europea e, in ultima analisi, alla Corte europea dei diritti umani.
ALTRE ANTIGIURIDICITÀ DELLE NORME SUL BAIL IN
Sussistono, peraltro, ulteriori profili di antigiuridicità del “bail in”, con riferimento alla natura ed ai contenuti dei rapporti che legano alla banca i diversi soggetti coinvolgibili dall’applicazione di quello strumento di “risoluzione” della banca medesima.
A tale riguardo, va innanzitutto rilevato che lo strumento in questione si pone, rispetto alla normativa nazionale, civilistico-commerciale e/o amministrativa da cui in precedenza traevano fondamento tali rapporti, come un “actus principis”, cioè come una normativa che irrompe, in nome di nuovi e prevalenti interessi, su assetti di interessi di natura privatistica in atto, sopprimendone, modificandone, o anche solo sospendendone, la preesistente normativa di riferimento.
La rilevazione che precede non è da trascurare perché l’inserzione automatica di una nuova norma, che costringe le parti di un rapporto a comportarsi in modo diverso, se non addirittura opposto, a quello previsto nell’assetto originario, dovrebbe avere carattere di eccezionalità e non di rimedio cui si possa fare normalmente ricorso, quale invece risulta essere il ”bail in” nella disciplina nazionale ed in quella comunitaria.
Questa asistematicità del “bail in” appare suscettibile di valutazione in termini di legittimità costituzionale, soprattutto con riferimento agli obbligazionisti ed ai titolari di depositi in conto corrente, in rapporto al disposto dell’art.47, comma 1 della Costituzione, in base al quale “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”.
Non ci vuole, infatti, molto acume giuridico per comprendere la manifesta incostituzionalità di una norma che impone, ai possessori di azioni o di obbligazioni non rischiose, la conversione forzosa in azioni di minor valore e, ai titolari di conti correnti che superano i 100.000 euro (per ora, ma il legislatore comunitario potrebbe abbassare la soglia di prelievo), un prelievo forzoso addirittura senza contropartite. E’evidente che una norma del genere né incoraggia né tutela il risparmio.
Sotto quest’ultimo aspetto, è palese anche l’illegittimità ex art.3 Cost. della norma a carico dei depositanti per disparità di trattamento rispetto agli azionisti e agli obbligazionisti, che almeno una contropartita, sia pure in perdita, ce l’hanno.
Si tratta, quindi di un vero e proprio esproprio senza indennizzo e non motivato da un interesse generale ma al dichiarato fine di soccorrere specifici soggetti privati, per cui è chiarissimo il contrasto con l’art.42, in base al quale la proprietà privata può essere espropriata salvo indennizzo e solo per motivi di interesse generale.
Né varrebbe opporre che i motivi di incostituzionalità sopra evidenziati non possono essere fatti valere davanti al giudice nazionale dal momento che la norma interna oggetto di censura non fa che adeguarsi ad una norma comunitaria per cui andrebbe dimostrato, in base alla c.d. teoria dei contro- limiti, che l’incostituzionalità tocchi un aspetto fondamentale e irrinunciabile del nostro ordinamento.
In realtà, il risparmio è un principio tradizionalmente connaturato ai nostri costumi e come tale non può essere inficiato da norme-trabocchetto come quella in esame, tanto più che la si vorrebbe applicare retroattivamente a rapporti già in essere alla data della sua entrata in vigore, senza che al risparmiatore sia data la possibilità di opporre che, all’atto della sottoscrizione del contratto di conto corrente, egli non era stato messo in condizione di conoscere lo stato di solvibilità della banca.
Del resto, la norma è (volutamente?) così sciatta e approssimativa da non prevedere una garanzia siffatta neanche per i nuovi contratti di conto corrente che si andranno a stipulare con le banche dalla sua entrata in vigore in poi, per i quali non viene imposto alle banche di rendere nota al nuovo contraente la propria situazione patrimoniale e finanziaria, anche previa pubblicazione del bilancio aziendale e degli esiti dei controlli periodici effettuati dall’Autorità vigilante.
Claudio De Rose