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Perché l’Unione europea si sta disunendo

La formula dell’Europa a due velocità – ma perché non a tre o quattro velocità? – è un tentativo per camuffare il processo di disgregazione del progetto integrativo in atto e un modo per garantire la sopravvivenza della superstruttura burocratica cresciuta in sessant’anni, ripartendola in due (o tre o quattro) sovrastrutture incaricate di dialogare tra loro perché il vero nodo concreto della questione è il destino delle istituzioni europee che, con la loro attività, hanno permeato la vita politica, economica, finanziaria, amministrativa e giudiziaria dei ventotto membri. Qualcosa di simile è avvenuto, nella prima metà degli anni ’90, nei Paesi dell’Est che hanno smantellato il loro impianto centralizzato, ma con la differenza che le loro popolazioni erano abituate a un tenore di vita medio-basso e, soprattutto, avevano una forte speranza di migliorarlo riconquistando la libertà.

La Russia accettò addirittura di perdere un quarto del suo territorio (5,3 milioni di kmq su 22,4) e metà della sua popolazione. Complessivamente, il Pil crollò del 40%. Poi tutti, in varia misura, si sono ripresi.

Per la Ue la situazione è diversa. La disgregazione avverrebbe in un clima politico, economico e psicologico prevalentemente negativo e di recriminazioni reciproche. Soprattutto, sulla base di precise considerazioni egoistiche allo scopo di rovesciare, per alcuni, una situazione ritenuta penalizzante oppure, per altri, di migliorare ancor più una posizione ritenuta vantaggiosa. C’è poi da considerare che se un gruppo di Paesi si chiamasse fuori per formare, come si dice, un “nucleo duro”, inevitabilmente molto limitato per non perdere di efficacia, gli esclusi sentirebbero di “subire” una tale decisione e la loro reazione non potrebbe essere positiva e di collaborazione, ma sarebbero indotti a dar vita a nuove aggregazioni in spirito di competizione non collaborativa. Su tutti questi sotto-insiemi peserebbe poi il più grosso degli interrogativi: gravitare verso gli Stati Uniti o verso la Russia o verso un terzo polo ancora indefinito?

Veniamo ai dettagli. Da parte italiana – ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni – si è ipotizzata una specie di ritorno alle origini, all’Europa dei Sei del 1957 (Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), cercando di contrabbandare il “nucleo originario” (e “puro”) con il “nucleo duro” allo scopo, piuttosto scoperto, di garantire la presenza dell’Italia, ovvero di impedire la sua esclusione che sarebbe umiliante per la classe politica che dovesse subirla. Ma proprio questo è il punto: il potere contrattuale dei sei partner è cambiato in questi decenni. Nel 1957, la Francia era dominante quanto meno sul piano politico-militare e disponeva di un impero coloniale; la Germania, solo la parte occidentale benché dichiarasse di rappresentare tutta la Germania, era a sovranità limitata per cui ambiva a entrare in una struttura europea che le avrebbe consentito di recuperare pari dignità internazionale; l’Italia era nella fase del miracolo economico, piena di energie e fortemente competitiva. Adesso c’è una chiara egemonia tedesca e si imputa all’Italia – terzo grande dell’Europa continentale – di essere il vagone che rallenta il treno.

Tutto è ovviamente opinabile ma non si troverà una soluzione se prima non si ammetteranno con franchezza gli errori compiuti. Se ne potrebbero indicare molti ma, a parte quello di avere creduto che l’integrazione economica avrebbe inevitabilmente condotto all’integrazione politica (tesi di Jean Monnet), è all’interno di questo progetto che è mancata la coerenza. Infatti, andavano bene le riduzioni delle barriere tariffarie tra i Sei e l’istituzione di una tariffa esterna comune, ma se si voleva raggiungere una vera integrazione economica bisognava puntare direttamente, prioritariamente e senza flettere su una stessa politica fiscale: stesso trattamento fiscale per i cittadini e le imprese e stessa capacità di verificarne e imporne l’applicazione. Anche se è banale ricordare che gli Stati sono sorti con un Esercito e un Fisco, e se possiamo trascurare l’Esercito, solo un medesimo Fisco avrebbe consentito ai cittadini e alle imprese dei Sei di sentirsi parte di una stessa comunità politica grazie all’effettiva parità di trattamento, che è la vera e sola base di una vera economia fondata sulla concorrenza. Questo sarebbe stato il vero motore dell’integrazione, che avrebbe modificato dal basso il mercato del lavoro e il mercato finanziario, potenziando in tutti l’apparato produttivo e il potenziale commerciale (come confermò la semplice eliminazione delle barriere doganali). Ma una vera unificazione fiscale avrebbe sottratto alle classi politiche nazionali l’ampio margine di manovra che esse hanno continuato ad esercitare per soli fini di potere interno.

La radice del nazionalismo è nel Fisco. La causa della crisi del processo di integrazione europea è nel semplice fatto che l’Unione europea è caratterizzata dalla disunione fiscale, e ciò nonostante il fatto che la pressione fiscale, in questi decenni, sia cresciuta dappertutto, avvicinandosi, o superando di qualche punto, la metà del Pil. E chi gestisce questa metà del Pil se non le rispettive classi politiche nazionali? Con il risultato che chi lo ha gestito meglio, o meno peggio, ha migliorato la propria posizione. Non è questo il caso dell’Italia.

Per mascherare questo persistente nazionalismo fiscale (che si traduce in nazionalismo politico) è stato costruito l’enorme apparato burocratico di Bruxelles, che “uniforma” tutto il superfluo o in non essenziale. Da cui una domanda aggiuntiva che ha in sé la risposta: come può funzionare una moneta comune senza un Fisco comune? Un “rimpasto” dell’Ue che non fosse imperniato solo su questo punto, sarebbe un’ennesima operazione gattopardesca. Dunque, vista l’esperienza, con buone probabilità di accadere, o almeno di tenere il campo delle chiacchiere per parecchio tempo.

Se è vero il dato, appena fornito dall’Eurispes, di un Pil italiano sommerso pari a 540 miliardi di euro (un terzo del Pil ufficiale) e parallela evasione fiscale di 270 miliardi, o se è vero il dato dell’Istat, che parla rispettivamente di 200 e di 100 miliardi, e se si ammette che ci sia una forte disparità percentuale con gli altri maggiori Paesi della Ue, non si vede con quale placebo questa possa essere salvata dalla disgregazione. Non sarà certo l’istituzione di una Guardia di frontiera europea a tenerla insieme, poiché i suoi problemi sono strutturali, quindi interni, e non esterni, che pure congiunturalmente contano e mediaticamente distraggono l’attenzione dalle vere questioni.



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