Sono giorni difficili per l’Europa e per chi come me ha provato a mettere in pratica nel suo piccolo il sogno europeo di Altiero Spinelli e ha militato nel Movimento Federalista Europeo.
L’allargamento del 2004 è stato chiaramente un errore per come è avvenuto e perchè molti paesi non erano ancora pronti a far parte di un progetto politico che puntava all’Europa dei popoli e non all’Europa degli Stati. Di questo si sta accorgendo chi oggi immagina uno zoccolo duro di Stati (a partire dai fondatori) che guidino l’Europa fuori dal guado.
Un paese che forse avrebbe avuto le caratteristiche identitarie per far parte del progetto europeo è la Serbia. Per questo ho chiesto a Biagio Carrano, un esperto di relazioni pubbliche cresciuto professionalmente con guru del settore come Carlo Bruno, il suo punto di vista.
Carrano è un esperto di internazionalizzazione d’impresa e comunicazione digitale e vive a Belgrado da quasi dieci ani dove dirige la eastCOM Consulting, la società di consulenza più amata dalle grandi aziende italiane che operano in Serbia, e il portale Serbian Monitor, unico media che racconta in italiano le opportunità di fare business in Serbia .
Un’Unione Europea in crisi di identità e di leadership mondiale. Quello che era un giudizio minoritario e controverso, magari tacciato di populismo, è diventato negli ultimi mesi una costatazione accettata anche da molti capi di Stato del continente.
Eppure l’idea stessa di un’unificazione dei popoli europei per creare un’area di benessere economico diffuso e di tutela dei diritti della persona, capace di essere un riferimento per il resto del globo, resta tra le più intuizioni più mobilitanti del secolo scorso. Un’idea la cui validità è dimostrata, paradossalmente, dalle centinaia di migliaia di esseri umani che premono per entrare in un’Europa che spesso non si dimostra all’altezza dei suoi principi fondativi.
Non solo persone, ma interi popoli e stati chiedono ancora oggi di entrare a far parte di un’istituzione indebolita eppure sostenuta da un’idea fortissima. L’unificazione europea è un processo ancora aperto, non solo perché mancano all’appello ancora cinque stati dei Balcani, ma soprattutto perché non termina con l’adesione e richiede agli stati membri, e specialmente a quelli di recente aggregazione, uno sforzo continuo per comprenderne e attuarne i valori.
In questo senso l’adesione della Repubblica di Serbia è di certo la sfida più complessa per Bruxelles. Paese più grande dei cinque in lista d’attesa in quella parte del continente, la Serbia si trova a dover accettare non solo gli standard sociali ed economici comunitari, ma anche la rinuncia a una parte storica del suo territorio, il Kosovo, dimostrando di aver interiorizzato i principi e i valori europei nella risoluzione di un conflitto e nell’accettazione di uno stato di fatto oggettivamente penalizzate.
Nonostante l’impegno per i negoziati con l’ex provincia autonoma e una gestione dell’emergenza profughi considerata da molte agenzie internazionali e dalla stessa Unione pressoché inappuntabile date le circostanze, ancora suscita sospetto e scetticismo tra molti osservatori la radicale svolta proeuropea del Presidente della Repubblica Tomislav Nikolic e del primo ministro e uomo forte del paese Aleksandar Vucic, fino ad appena cinque anni entrambi al vertice di un partito ferocemente anti-Ue, anti-NATO e filorusso. Si tratta di una persuasione sincera o di mero pragmatismo opportunistico? Su questo tema ho intervistato per il Serbian Monitor, portale di informazione sulla Serbia in italiano, James Ker-Lindsay, Senior Research Fellow sulla politica dell’Europa sud-orientale alla London School of Economics e tra i massimi esperti continentali di moderni conflitti di secessione e successivi processi negoziali, che ha ragionato con noi sulla sincerità della svolta europeista dei vertici politici del paese, sull’inevitabile accettazione dell’indipendenza del Kosovo e sulla comprensione dei valori europei da parte della Serbia.
In un articolo recente (‘Pre-accession Europeanization’: the case of Serbia and Kosovo‘), Ker-Lindsay ha sostenuto che la radicale trasformazione della politica della Serbia sulla questione Kosovo si basa su opportunismo politico e interessi materiali (ovvero: trovare una via d’uscita a una profonda crisi economica), invece di una sostanziale convergenza sul sistema dei valori europei. In sintesi, più un approccio pragmatico del governo attuale che una testimonianza di un vero e proprio processo di europeizzazione del paese e delle sue istituzioni. Non si tratta di un giudizio negativo sul governo per motivi di orientamento politico ma di una mera costatazione di fatto. Eppure confrontarsi con il modello europeo, comprenderne le logiche, i valori, gli orientamenti, finisce, secondo Ker-Lindsay per innescare un processo di “europeizzazione interiore” da parte di attori politici che partono da storie e idee alquanto distanti.
“Mi piace credere- ha detto Ker-Lindsay- che l’esposizione al funzionamento dell’Unione europea alla fine porta ad una trasformazione fondamentale degli atteggiamenti; anche se la mia fede è stata scossa da quello che stiamo vedendo con l’Ungheria e con la Polonia al momento. Tuttavia, capisco che questo processo di assorbimento dei valori europei richiede un po’ di tempo. Io davvero non credo che l’europeizzazione possa essere imposta a un paese. Ci vuole un periodo lungo di interazione con l’UE prima che i principi e le norme europee diventino veramente integrati in una cultura nazionale attraverso un processo di apprendimento sociale. Detto questo, credo che questo processo possa essere accelerato. L’utilizzo della condizionalità è molto utile in questo senso. Forzando un paese a comportarsi in un certo modo, anche se non ci crede in quei valori in un primo momento, alla fine porterà a capire perché essi sono importanti”.
Si tratta di un banco di prova essenziale, non solo per il paese balcanico. Riuscirà l’Unione europea a rilanciarsi proprio attraverso una rielaborazione e un rafforzamento dei suoi valori unificanti, che si sono dimostrati capaci di produrre significative trasformazioni anche alle sue periferie? Oppure ogni paese inizierà sempre più a rivendicare scelte e principi politici autonomi, degradando l’Unione a una moneta comune e una burocrazia transnazionale?
Come nel caso della Serbia e dei Balcani, così nei confronti dei paesi del mediterraneo sud-orientale, la stabilità ai confini dell’Unione dipenderà anche da quanto sarà coesa l’Unione stessa.
Biagio Carrano