“In questo mondo non v’è nulla di sicuro, tranne la morte e le tasse”, scriveva Benjamin Franklin nel lontano 1789, eppure in Italia non sono sicure nemmeno quelle, o almeno non per tutti. Ce lo suggerisce il Centro Studi della Confindustria (CSC), che ha recentemente stimato l’evasione fiscale e contributiva in 122,2 miliardi di euro (una cifra pari al 7,5% del PIL italiano), e più autorevolmente il Presedente della Repubblica nel suo messaggio dell’ultimo dell’anno, ricordandoci come “gli evasori danneggiano la comunità nazionale ed i cittadini onesti”.
Come è spiegabile una realtà del genere?
L’evasione fiscale è per sua natura un fenomeno complesso e multiforme, da sempre radicato nei sistemi tributari di ogni paese, e la letteratura economica non ha mancato di interessarsene. Senza dovere necessariamente ricorrere al pioneristico lavoro di Allingham e Sandmo sulla cosiddetta “tax compliance”, è comunque noto che l’evasione deriva in primo luogo da comportamenti “opportunistici”. Infatti, di fronte all’obbligo del pagamento delle imposte il soggetto valuta quella che gli economisti definiscono la “strategia ottimale” da seguire in funzione dell’imposta dovuta, della personale propensione al rischio, ma anche della probabilità di sfuggire al controllo e dell’ammontare della sanzione, con esiti che sono diversi da persona a persona, da soggetto a soggetto e, in termini aggregati, da paese a paese.
Il risultato per l’Italia sono proprio quei 122 milioni di “tax gap” (di mancato gettito) che ci collocano tra i paesi europei a maggiore evasione e che chiamano in causa i cittadini disonesti almeno quanto l’Amministrazione, sia dal lato dell’efficienza e della capacità di accertamento sia da quello della complessità del sistema fiscale e tributario.
Tale primato comunque, oltre a rappresentare un problema per il bilancio dello Stato indirizzando il prelievo (la pressione fiscale “effettiva” è ora del 54,9% tra le più alte d’Europa) verso quelle basi imponibili che possono sottrarsi con maggiori difficoltà alla tassazione, ha conseguenze anche in termini di equità tributaria (specie orizzontale) finendo per minare gli elementi di coesione sociale e le condizioni di concorrenza sui mercati, con riflessi negativi sull’efficienza di sistema.
Viceversa, immaginando un dimezzamento del cosiddetto “tax gap”, e dunque un recupero per l’Erario di 61 miliardi di euro calcolato sulla base della stima dell’evasione, gli effetti macroeconomici sarebbero nettamente positivi. Al riguardo il CSC calcola un aumento del PIL del 3,1%, una crescita di consumi ed investimenti superiore al 5% ed una ripresa occupazionale quantificata in 335mila unità.
Complice la crisi economica, che ha sicuramente acuito la percezione del fenomeno ed ha agito da catalizzatore nel far maturare un (più) profondo sentimento di disapprovazione sociale, il contrasto all’evasione è ora apprezzato dal 60% degli italiani, mentre poco di meno sono quelli che considerano la lotta all’evasione addirittura una priorità per lo Stato. Un consenso importante sul quale fare leva per spingere non solo il legislatore a fare meglio, ma per operare innanzitutto un cambiamento culturale al fine di far passare il concetto che pagare le tasse significa stare nella comunità e sentirsi partecipi del bene comune.
Ci sarebbe in verità da aggiungere la grande riflessione sul fatto che pagare tutti fin’ora non ha necessariamente corrisposto a pagare meno. Ma di questo e di altre materie attinenti l’evasione parleremo prossimamente.
(Continua)