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Il convento italiano è povero, ma i frati sono ricchi

Alcuni anni fa Rino Formica disse che il convento (l’Italia) era povero, ma i frati (gli italiani) erano ricchi. È ancora sostanzialmente vero. La ricchezza netta delle famiglie è pari a sette volte il reddito disponibile, sei volte il Pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico. Siamo più benestanti dei cittadini di molte grandi democrazie occidentali, ma il Paese non cresce o cresce poco.

Perché? La risposta va cercata anche nella composizione del patrimonio privato nazionale. Esso è costituito per il 58 per cento da immobili, per il 37 per cento da attività finanziarie e per il 5 per cento da attività reali. Quando parliamo di immobili, solo il dieci per cento sono terreni, negozi, uffici o capannoni. Il resto sono abitazioni. Quando parliamo di attività finanziarie, solo un quarto sono azioni e fondi comuni (cioè capitale di rischio). Il resto sono depositi bancari e postali, obbligazioni, riserve tecniche delle compagnie di assicurazione. Quando parliamo di attività reali, solo tre quarti sono investiti in beni produttivi (impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti). Il resto va all’acquisto di gioielli, quadri, mobili di antiquariato, e cose simili. Beninteso, il valore di quei tre quarti è sottostimato.

Si spiega con il fatto che le nostre imprese sono poco capitalizzate e molto indebitate. In termini crudi, chi le possiede preferisce investire nelle case e nella finanza piuttosto che nelle aziende. Infatti, i proprietari sono spesso facoltosi mentre le loro aziende sono spesso in rosso. Basta leggere le indagini di Istat e Bankitalia, quindi, per farsi un’idea della più paradossale delle nostre contraddizioni: siamo un popolo di risparmiatori (ancorché non di contribuenti onesti), ma a cui non piace rischiare. Per sfiducia nei confronti dello Stato e delle banche, certo, ma pure per ragioni di ordine culturale: avere l’appartamento in cui si vive (o in cui si va in vacanza), che accresce il suo valore nel tempo, è storicamente considerato il bene difensivo per eccellenza.

A questo punto, la domanda è: se gli italiani continuano a mettere buona parte del proprio denaro negli immobili, come si può finanziare la crescita? Sotto tale profilo- e solo sotto tale profilo- andrebbe valutata la scelta del governo di abolire l’imposta sulla prima casa, facendone il perno di un nuovo equilibrio nel trattamento fiscale tra le varie forme di risparmio. Le polemiche pretestuose sul suo pur innegabile risvolto elettoralistico lasciano il tempo che trovano (come se cercare di allargare il proprio consenso fosse un delitto). Le tasse servono a pagare gli investimenti e i servizi per la collettività. Ma la loro struttura non è neutra, è lo specchio del modello produttivo e sociale di una nazione. Fin qui si sono privilegiate le rendite, qualunque fosse la loro origine, a scapito del lavoro e dell’impresa. Dobbiamo decidere che Paese vogliamo, insomma. Oggi tutti sono seduti intorno al capezzale della produttività del lavoro.

È forse giunto il momento che qualcuno cominci a occuparsi anche della produttività del capitale. Almeno Matteo Renzi potrebbe farci un pensierino un po’ più convinto.

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