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Il nuovo Statuto dei Lavoratori della Cgil è già vecchio di 100 anni!

La proposta di un nuovo Statuto dei Lavoratori della CGIL, denominata “Carta dei diritti Universali del lavoro, ovvero un nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori” è un doppio salto mortale indietro verso il passato.

Scorrere gli articoli del ”Nuovo Statuto di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici” è un’avventura. Ma il finale si conosce già poiché è identico all’inizio: pare che il tempo non sia passato. Pare che non siano passate generazioni, conflitti, ere sociali e sociologiche. Pare che non vi sia stato alcun mutamento nelle arti e nei mestieri, nel lavoro in generale e che le imprese siano sempre le stesse e le organizzazioni abbiano le medesime strutture di 100 anni fa!

Ma non è questo il rilievo più preoccupante. Tale operazione rappresentata formalmente ed ufficialmente la distanza  siderale della Cgil dalla realtà sociale, economica, imprenditoriale, giovanile. Insomma la distanza dalla “realtà”. Tutto è nel segno della contrapposizione rispetto a quanto fatto in termini di riforme sino ad oggi. Dimenticate le motivazioni, dimenticate le finalità, dimenticate le esigenze che impongono un riallineamento delle regole del lavoro del nostro Paese a ciò che è “l’Europa”, non ancora il “Mondo!”. Il documento è intensamente pervaso da un sentimento di riaffermazione di principi che non trovano più residenza nel contesto storico. Vi è il tentativo di riaccendere un dualismo sociale che non ha più senso e non s’intravede più nella realtà dei fatti.

Ecco i punti più controversi.

Art. 18 e licenziamenti. La riformulazione dell’art. 18 è un’operazione incredibile. Non solo vi è la totale cancellazione dell’ultima riforma, ma addirittura siamo di fronte ad una norma che pone l’imprenditore assoggettato alla reintegrazione potenzialmente sempre: illegittimità del licenziamento per giusta causa, giustificato motivo oggettivo e soggettivo. Il mero risarcimento – che è individuato nel suo massimo fino a 36 mesi – risulta un’ipotesi del tutto residuale e il Giudice, qualora lo dovesse percorrere, deve giustificarlo! Il principio portante della proposta della Cgil è quello di prevedere la reintegrazione quale sanzione principale per i licenziamenti tutti e per tutte le imprese quale che sia la dimensione, non solo per i lavoratori subordinati a tempo indeterminato ma anche – in determinati casi – per le altre tipologie contrattuali. Trattasi di un principio antistorico, antieconomico e che non tutela nemmeno il reale interesse del lavoratore. Troviamo la riaffermazione dei principi che anche la magistratura più schierata aveva abbandonato o faticava a legittimare nelle sentenze: il “vizio formale” da adito alla reintegrazione. Qualsiasi provvedimento dell’imprenditore potrà essere tacciato di “discriminazione” nell’accezione allargata di cui all’art. 11 del testo proposto dalla Cgil. Il cittadino deve avere il diritto al lavoro ma trovo assurdo – non solo io – che esso debba avere il diritto al “posto” di lavoro all’interno di un rapporto che uno dei due contraenti non vuole più. Pensare poi di estendere la norma anche alle piccole imprese è veramente una provocazione. Nel medesimo senso è la previsione della sanzione della reintegrazione anche per i vizi formali sia del licenziamento individuale che collettivo.

Controlli a distanza. Si tenta di tornare in una dimensione che nemmeno lo Statuto del 1970 aveva percepito. Vi è il tentativo di affermare – per legge – il ruolo del sindacato attraverso una delega a trattare praticamente su tutto. Non vi è alcuna traccia di presa in considerazione delle innovazioni tecnologiche, di ciò che oggi consente di agevolare la prestazione, ma nel contempo potrebbe portare ad un controllo. S’ignorano colpevolmente 50 anni di giurisprudenza che ha tentato di porre rimedio al silenzio del legislatore. Non vi è alcuna traccia di una risposta circa il tema della “certezza” e sostenibilità delle azioni organizzative dell’imprenditore. Si tenta un’intromissione nei profili gestionali, senza concedere nulla al tempo.

Riforma della tipologia contrattuale. Leggendo gli articoli dedicati al tema sembra di leggere il testo di manuale del diritto del lavoro del 1960. Il contratto a termine e il contratto di somministrazione ritornano a rappresentare un mondo che non esiste più. Esse ricalcano le previsioni normative del 1962, non tenendo nemmeno conto di quella evoluzione alle quali lo stesso sindacato ha partecipato nel corso degli anni.

Torna la contrapposizione tra impresa e lavoratore. Una tecnica sbagliata quanto pericolosa poiché accompagnata da un substrato culturale che sembra voler alimentare un dibattito sociale che non è dei nostri tempi. In questo senso s’inseriscono anche i principi generali che si traggono nel contesto generale. Vi è ancora una forte contrapposizione fra “impresa e lavoratori”, vi è ancora l’idea che ciò che non è a “tempo indeterminato” è “precario”! Tutto ciò deve preoccupare, in un tempo in cui si deve trovare una nuova intesa tra proprietà, manager e capitale umano, la Cgil è capace solo di produrre un documento che fotografa una realtà che non esiste più.

Diritto di riservatezza e divieto di controllo a distanza. La previsione prevede il ritorno quasi identico alla formula del 1970. Vi è un divieto assoluto che può essere superato solo in presenza di determinate ragioni e solo con il consenso del sindacato. C’è un curioso comma 4 che prevede una disciplina delle “comunicazioni” che potrebbero essere “non libere e non segrete” qualora per i “mezzi” di lavoro resi disponibili all’azienda sia stato escluso il carattere riservato. Siamo di fronte ad un tentativo mal riuscito di disciplinare un tema che ormai non ha più alcun lato oscuro. Si pensi alla recente sentenza della Corte di Strasburgo con la quale si stabilisce che lo strumento aziendale attribuisce per sua stessa natura il diritto del proprietario (l’imprenditore) di verificarne il corretto utilizzo. Insomma, un doppio salto mortale all’indietro che non considera il punto fondamentale della riforma appena varata: nessuno vuole controllare nessuno. Il tema vero riguarda il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, il corretto utilizzo del tempo di lavoro.

La vera finalità è ridare un ruolo al sindacato per legge! Certo, la finalità di una formulazione così squilibrata risulta evidente: ridare al sindacato un ruolo e potere all’interno dell’impresa e nella relazione con l’imprenditore. Un ruolo e un potere non guadagnato sul campo, non coltivato e realizzato attraverso la legittimazione di idee e comportamenti, bensì attraverso una norma che vuole garantire un privilegio ed una rendita di posizione. Ancora una volta si cerca di scimmiottare ordinamenti stranieri dei quali però si ignora cultura e storia. Ancora una volta la Cgil dimostra la lontananza dalla realtà, dal sistema, dal mercato, dalla società e dai cittadini, siano essi lavoratori o meno.

Insomma, la proposta legislativa appare priva di quegli elementi di contemporaneità e ragionevolezza che pongono un grosso interrogativo sul futuro delle relazioni sindacali. In un momento storico nel quale occorre rivedere i rapporti tra impresa, manager e capitale umano, la risposta della Cgil appare del tutto inadeguata.

 

 

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