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Tutti gli effetti delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran. Parla Vatanka

Il politologo Marc Lynch, in un articolo del Washington Post, ha sintetizzato le ragioni che hanno spinto i sauditi ad alzare il livello della tensione con gli sciiti (e, quindi, con l’Iran). L’Arabia, ha scritto Lynch, ha fatto appello al settarismo in un momento di estrema difficoltà, in cui si trova a far fronte ad una duplice minaccia, interna ed esterna. Quella interna è dovuta alla crisi di bilancio della Casa Reale, a causa della quale, per la prima volta, Riad è stata costretta a misure di austerity, in conseguenza del crollo del prezzo del petrolio. Quella esterna è costituita dall’Iran Deal, l’accordo nucleare tra la comunità internazionale e Teheran, che i sauditi hanno cercato a lungo di boicottare. Alex Vatanka, iranologo del think tank Middle Easte Institute di Washington, concorda in buona parte con questa analisi.

L’ANALISI DI VATANKA

“Tutto è partito con la decisione dell’Arabia Saudita di uccidere, assieme a un gruppo di terroristi legati ad al Qaeda, l’ayatollah Nimr al Nimr – dice Vatanka a Formiche.net Questa mossa ha avuto lo scopo di creare una tensione di tipo settario, tra sunniti e sciiti, in modo da compattare il fronte sunnita guidata dall’Arabia. Ancora una volta, la religione è stata utilizzata a fini politici”. L’Iran ha reagito con l’assalto all’ambasciata saudita di Teheran, anche se la posizione ufficiale del governo è stata di condanna di questo gesto: “C’è chi ha detto che gli iraniani si sono comportati in maniera più responsabile dei sauditi. Io non credo che sia stato responsabile consentire a un gruppo di fanatici di attaccare una missione diplomatica. Ha dato l’idea dell’Iran come di un Paese senza legge, il che non è vero, e ha colpito in maniera massiccia tanto la sua immagine globale quanto i suoi interessi internazionali”.

L’IRAN DEAL

Tutto gira intorno all’Iran Deal, l’intesa sul programma nucleare, su cui ha scommesso l’amministrazione Obama e che è avversata in eguale misura dai sauditi e dagli hardliner del regime di Teheran. “L’Arabia”, prosegue Vantanka, “si aspettava una grande reazione dell’Iran all’uccisione di al Nimr, ma probabilmente non pensava che i falchi iraniani si sarebbero spinti fino al rogo dell’ambasciata. Se, invece, si è trattato di una mossa calcolata di Riad, di una vera e propria trappola, beh, gli iraniani ci sono caduti pienamente. O, meglio, gli hardliner hanno colto la palla al balzo per assalire l’ambasciata, provocare i sauditi ed arrivare alla rottura delle relazioni diplomatiche, un passo che mette in difficoltà gli americani. Il grande sconfitto, in questo caso, è solo uno: il governo del presidente Hassan Rouhani, il grande architetto dell’accordo, che negli ultimi mesi aveva cercato di migliorare i rapporti con l’Arabia”.

I SEGNALI DI RIAD

Anche i sauditi recentemente avevano lanciato dei segnali sul piano diplomatico. A fine dicembre avevano annunciato l’apertura di un’ambasciata a Baghdad, dopo ben 25 anni (era stata chiusa dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein). Poi avevano manifestato l’intenzione di inviare un nuovo emissario a Teheran (quello in carica era stato attaccato, soprattutto sui social media, per un sostegno eccessivo nei confronti dell’ayatollah Rafsanjani, l’ex presidente oggi voce critica dell’establishment). Ma il ministero degli Esteri del Regno ha condiviso l’idea di eseguire la condanna a morte di al Nimr? “Credo proprio di sì”, dice l’iranologo. “È vero che ci sono differenze all’interno dell’élite saudita, ma il ministro degli Esteri Jubeir è un hardliner, da questo punto di vista. Probabilmente è stato proprio lui uno dei personaggi chiave della decisione di rompere le relazioni diplomatiche con l’Iran”.

LA POSSIBILE MEDIAZIONE

Una mediazione tra i due fronti appare dunque difficile. La Russia si è già offerta di agire da ponte di collegamento tra Riad e Teheran. Vatanka dissente: “Non credo che Mosca possa fare da mediatore tra Iran ed Arabia, perché i sauditi non si fidano di Vladimir Putin. Gli americani potrebbero tentare una conciliazione, ma al momento lo hanno escluso. La Turchia potrebbe, forse, esercitare questo ruolo, ma si trova sulla sponda contrapposta a quella iraniana riguardo la guerra in Siria”.

LA GUERRA IN SIRIA

A proposito del conflitto siriano, molti analisti si interrogano sull’impatto che avrà la rottura diplomatica tra le due potenze regionali, alla vigilia del tentativo di mediazione tra Bashar al Assad e una parte dei ribelli, avviato dopo l’intervento militare della Russia a fianco del regime. Un tentativo che vede la partecipazione di Riad e Teheran, e il sostegno degli Stati Uniti. Mettere attorno a un tavolo sauditi ed iraniani sarà ancora più difficile, sulla Siria come sullo Yemen, altro conflitto regionale in cui i due Paesi sono su fronti contrapposti (l’Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi, l’Arabia ha lanciato ad aprile una campagna militare a favore del governo del presidente Hadi, sunnita). Vatanka sostiene che “la rottura non avrà conseguenze radicali sullo stato dei conflitti nella regione, quantomeno sul breve periodo. Sul campo, in sostanza, cambierà poco, sia in Siria che in Yemen. Se si guarda al lungo periodo, invece, la soluzione dei problemi, che è politica, e vede il coinvolgimento di Arabia ed Iran, diventa sempre meno probabile. Anche perché i sauditi non sono veramente interessati a una distensione, e i falchi iraniani hanno assolutamente bisogno di nemici per preservare il loro ruolo”.

GLI EFFETTI SUL PETROLIO

Un discorso analogo, con la distinzione tra breve e lungo periodo, si può fare, dice l’iranologo, sul mercato del petrolio. C’è un eccesso di offerta, i prezzi sono scesi in maniera vertiginosa, colpendo tutti i Paesi produttori. “Al momento non ci conseguenze, la produzione rimarrà stabile. Se la tensione si sgonfierà sul breve periodo, l’impatto sarà veramente minimo. Altrimenti, se la questione si espanderà, ci saranno conseguenze difficili da prevedere”.

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