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Ecco cosa serve davvero al Monte dei Paschi di Siena

Il grande lavoro compiuto in questi anni per il risanamento e il rilancio del Monte dei Paschi non può essere di colpo vanificato dalla ripetizione degli attacchi ai quali è sottoposto il suo titolo in borsa. Renderebbe inutile il risollevamento, preso per i capelli, dalla situazione in cui era precipitato per le scelte della gestione Mussari. È stato svolto un lavoro enorme in questi anni, contrassegnati da aumenti di capitale della banca per 8 miliardi complessivi. Conseguito un buon livello di stabilità, si è posto il problema, definito il rapporto con la Fondazione, di un’aggregazione con un’altra banca, cui l’istituto è stato sollecitato dalla Vigilanza unica anche in maniera maldestra con l’inopportuna fissazione dei tempi per la concentrazione. L’obiettivo in effetti si pone, ma il Monte non può di certo arrivare a un’aggregazione in condizioni di debolezza o, peggio ancora, di emergenza, come si scrive in qualche cronaca.

 

La comunicazione dei giorni scorsi dell’amministratore delegato Fabrizio Viola sulle condizioni della banca, tendente a rassicurare, è stata opportuna e fondata. Il banchiere, che prima con Alessandro Profumo e poi con il nuovo presidente Massimo Tononi ha lavorato intensamente per portare l’istituto dal pelago alla riva, ha tutta la legittimità di reagire di fronte a un evento che rischia di fare apparire la sua opera, e quella di tutti coloro che nel Monte hanno lavorato con grande impegno, come una fatica di Sisifo. L’istituto presenta un elevato livello di crediti deteriorati, intorno al 20% secondo alcune valutazioni, e a questa situazione ha già cominciato a porre rimedio autonomamente, senza attendere la messianica bad bank. E tuttavia di una misura del genere certamente avrebbe bisogno per fruirne i vantaggi, ma la Commissione Europea e le sue strutture continuano a frapporre ostacoli bizzarri al decollo di questo necessario veicolo. In ogni caso non si può ulteriormente rimanere senza agire e occorre pensare a qualche misura straordinaria, anche da parte del Tesoro, per evitare il massacro quotidiano per il comparto bancario e in particolare per il Monte: un massacro che si alimenta, poi, anche delle turbolenze internazionali e dei crolli in altre borse, come ieri è accaduto per quelle asiatiche. In un contesto di volatilità e di tendenziale fragilità le parti meno forti o più deboli diventano facili bersagli, a causa dei loro problemi specifici cui si aggiunge l’effetto alone degli altri mercati.

Naturalmente il tema dell’aggregazione, quantunque in queste condizioni non attuabile, non è fuori dall’ordine del giorno, anche se si dovranno approfondire molto le condizioni e i vincoli di una tale operazione, che non potrebbe essere la mera acquisizione dell’istituto da parte di un’altra banca. In questi giorni le cronache hanno riesumato l’ipotesi, a suo tempo oggetto di attenzione, di una concentrazione tra Ubi Banca  e Monte. Altri ipotizzano differenti ipotesi di fusione. Qualcuno si spinge a intravedere l’eventuale concentrazione della stessa Ubi con la Popolare d Milano come punto di passaggio per una intesa con il Monte. Intanto c’è da rilevare che la Bpm  non ha ancora scelto chi impalmare tra i due possibili pretendenti (Banco Popolare  e Ubi) e questa non scelta, anche se motivata da necessarie valutazioni e approfondimenti nonché dalla ricerca degli ineludibili consensi, può alla fin fine valere un assetto prenegoziale da «due forni» dal quale la popolare milanese, pur non essendo eventualmente questo il suo scopo, può trarre vantaggio.

Ma, poiché questa vicenda è in ballo da un po’ di tempo, si approssima il momento della doverosità di una decisione, se non si vuole avviare una nuova telenovela, valutando i dati tecnici innanzitutto e poi anche le ricadute a più ampio spettro (economico, sociale, istituzionale) di una possibile aggregazione. La sistemazione delle posizioni di vertice dovrebbe essere oggetto di valutazione solo in ultima istanza, ben dopo comunque la soluzione dei problemi e la soddisfazione delle giuste aspettative del personale. Se si parte invece dal vertice, che diventa un prius o addirittura una precondizione, si altera il quadro delle decisioni: non ci si scandalizza se anche questi problemi hanno il loro evidente peso, ma farne la chiave di volta di tutte le altre soluzioni significherebbe subordinare il modello istituzionale, funzionale e operativo a pochi, pur capaci e stimati, manager.

(Pubblichiamo questo articolo uscito sul quotidiano MF diretto da Pierluigi Magnaschi grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori)

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