Dopo la battaglia mediatica sui presidi sceriffi è ricaduto il silenzio sul ruolo che i dirigenti scolastici debbono esercitare nell’attuare la riforma cosiddetta “Buona scuola”, salvo rileggere in questi giorni le polemiche sindacali contro l’ipotesi che questi possano scegliere i docenti durante i trasferimenti o possano erogare bonus di merito ai docenti del proprio istituto, dopo aver sentito il Comitato di Valutazione.
In questi giorni il periodico Tuttoscuola ha lanciato un dossier che invece sposta la seria problematica dei dirigenti scolastici sul piano salariale, per denunciare la gravi disparità di stipendio, per le incombenze esercitate, rispetto ai colleghi dirigenti dell’Amministrazione Pubblico o rispetto ai colleghi presidi in Europa.
Il dossier è ricco di notizie nel segnalare i molti disagi che la professione direttiva sta vivendo. Condivido gran parte della descrizione, eppure resto convinto che la difficoltà principale della nostra professione non sia, come indicato all’inizio del vostro dossier, di carattere economico. Provo a dare ragioni di questa affermazione che, capisco, non solo poco accetta da molti colleghi ma poco “di moda”.
1. Già DiSAL nel 2013 proponendo ai colleghi in Italia il “Manifesto per una nuova dirigenza scolastica” indicava come questione prioritaria il serio problema dell’identità che deve assumere la nuova figura direttiva nelle scuole, investite in questi anni da tanti “apparenti” cambiamenti. La questione cruciale, cioè, rimane di carattere culturale.
In quel testo di DiSAL c’era un lungo elenco di “fattori di travaglio” (alcuni dei quali da voi ripresi) di una professione che in pochi anni, dal 2001 in poi, ha subito enormi cambiamenti, la quasi totalità in peggio. Alla fine, tolti vari fronzoli, l’attuale dirigenza scolastica delle scuole statali resta, nella suo quadro professionale, un funzionariato, figura cioè di un “burotecnocrate”, con claudicanti aggiornamenti “manageriali”, ancora nonostante tutto terminale dell’apparato amministrativo, incentrato su incombenze che lo hanno allontanato dalle serie responsabilità culturali ed educative, dai bisogni degli studenti, dalle problematiche dei docenti e delle famiglie. Per poi accorgersi in momenti drammatici che l’emergenza educativa nelle scuole è tale da porre addirittura un problema di “malattie professionali”.
Un caro amico, autore del miglior manuale sulla dirigenza scolastica, ha fatto una comparazione sul profilo del preside scaturito dalla riforma Gentile (art. 10 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965) e il profilo del dirigente scolastico delineato nel 1997 (poi contrattualizzato nell’art. 14 del CCNL 2006/09 del 15 luglio 2010), evidenziando prevalenti elementi di continuità sia nelle funzioni “interne” all’istituto che sul versante dell’apparato amministrativo.
Tutti in fondo riconoscono che l’autonomia si è sviluppata come puro decentramento amministrativo, incrementando in modo sommativo le competenze del Capo di Istituto, senza innovarne sostanzialmente il ruolo. Quindici anni di questa dirigenza scolastica (pur assieme a tentativi di cambiamento nella prassi direttiva, non ultimo il maldestro tentativo di assegnare il compito di distribuire premi di merito), hanno portato oggi, soprattutto tra chi la vive con impegno e dedizione, ad un diffuso stato di incertezza e prostrazione. In questo la situazione salariale è solo uno dei fattori.
La professione ha assunto caratteri contraddittori: a fronte di sempre maggiori richieste e di norme sempre più invasive, l’identità professionale si è indebolita ed oggi vive uno stato di crisi che spinge a domande serie e forzatamente contrastanti: burocrate o leader educativo ? datore di lavoro o guida di una comunità professionale?
Se non si risolve prioritariamente questa situazione e si da per scontato la massa di incombenze scaricate, sembra ovvio porsi il problema del riconoscimento salariale, avvalorato dai confronti con altre dirigenze.
Sia chiaro: nessuno rifiuta un miglioramento economico, laddove fosse possibile per tutti: ci mancherebbe altro ! Ma per tutta la società italiana non vale forse oggi l’interrogativo posto da Papa Francesco nella “Laudato si’”: poiché “abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini” non è giunto forse il momento di “rallentare un determinato ritmo di consumo per dare luogo ad un’altra modalità di progresso e sviluppo” ?
Non so quale beneficio porti alle sorti economiche italiane l’espandersi in tutte le corporazioni della domanda di maggiore reddito e di maggiori benefici. Certo, questo esigerebbe una classe politica capace di resistere al corporativismo dilagante di cui ormai è piena la dialettica sociale ed economica e con la volontà di avviare una vera prassi di giustizia sociale, specie verso le nostre stesse situazioni di povertà ed emarginazione. Quanta ne vediamo a scuola !
2. Porre un problema di identità non è porre un problema astratto, contrapposto alla concretezza dei soldi ! Il citato Manifesto ne dava chiare e concrete implicazioni.
a. Tutte le responsabilità scaricate su quel che fu il preside, devono appartenere ad una moderna direzione di scuole ? Basti pensare alla questione più grave, la funzione di “datore di lavoro”, attribuzione ridicola, visto che il dirigente non assume personale, non valuta personale, non ha denaro per provvedere alla manutenzione neppure minima degli edifici, non ha strumenti né messi per collaborare alla tutela della salute degli operatori e utenti della scuola. La vicenda del povero collega Bearzi nella sua solitudine istituzionale è stata presto accantonata.
b. Le dimensioni assunte in pochi anni (dal 2009) dalle scuole hanno aggravato la professione direttiva: Istituti fatti da decine di plessi, con una media in certe regioni di 1500/2000 alunni, distribuiti, in certi casi, su distanze tra i 50/70 km. Come è possibile in questo contesto, pur con validi collaboratori, seguire le problematiche formative, curare il miglioramento degli apprendimenti, intessere valide relazioni con il territorio e le imprese, senza cadere nel formalismo, nella prostrazione ? O, come spesso purtroppo accade, senza fuggire dalle proprie incombenze ?
c. A causa delle mutate dimensioni delle scuole, il numero dei dirigenti di scuole statali è crollato: solo nel 2008 erano quasi 13.000, ora sono poco più di 8.000. In molti paesi europei (con numeri di popolazione non molto differenti) le unità scolastiche sono molte di più e con minori dimensioni, con le conseguenze del caso. In un convegno nel salone del Miur del 22.11.2012 un ispettore ministeriale francese ricordava che le unità scolastiche in Francia erano oltre 12.000 mentre in Inghilterra 23.000 !
d. L’attuale contesto professionale delle scuole mortifica ogni desiderio di serietà e dedizione: il dirigente di fatto non ha collaboratori con del tempo a disposizione (si è tentato in Parlamento di eliminare il vicario con esonero); non ha praticamente strumenti economici o d’altro genere incentivante significativi per riconoscere chi si dedica con impegno alla comunità scolastica; non ha organismi amministrativi
e. L’attuale configurazione giuridica e contrattuale del professionale lascia il dirigente statale (diversamente da quello delle scuole paritarie) senza alcun serio interlocutore che sia un chiaro mandante dell’azione culturale ed educativa, dal quale ricevere chiari obiettivi da perseguire (quelli nel contratto di assunzione dall’USR sono ridicoli e uguali dall’Alpi alle Sicilie). E’ la gravissima questione dell’assenza di organismi gestionali ed amministrativi.
f. L’attuale configurazione giuridico e contrattuale lascia il dirigente scolastico totalmente solo di fronte a tutta la casistica giudiziaria, disciplinare e processuale. Lo sanno tutti che in sede di prima istanza giudiziaria in quasi tutte le regioni (mi pare esclusa l’Emilia Romagna) il dirigente deve andare per forza da solo in processo senza nessuna assistenza giuridica e tecnica ? Senza nessuna copertura assicurativa (che paga di tasca propria) da parte della stessa Amministrazione che gli affida le incombenze ?
3. Risolviamo prima la questione di chi debba essere il nuovo dirigente scolastico, quali funzioni debba avere con chiarezza. E l’identità necessaria oggi ad una scuola moderna (lo dicono tutte le ricerche internazionali) deve essere quella di un direttore di istituto (o di un dirigente formativo di un’impresa sociale, come dicono altri studiosi) che, rispondendo alla propria comunità locale, sottopone tutte le azioni organizzative e amministrative al primato della cultura e della relazione educativa, che sono la vera chiave di volta della comunità scolastica.
Per questo c’è però un altro aspetto da affrontare. Nei paesi a cultura occidentale l’associazionismo professionale, pluralista nelle sue forme, è molto diffuso. In Italia il prevalere di una cultura “solipsistica” delle professioni nella scuola e l’enorme invadenza sindacal-corporativa lo ha limitato sempre più dagli anni ’70 in poi. Non si da identità professionale senza recuperare una forte pratica di comunità professionale, uscendo dall’isolamento quotidiano e ricostituendo nuovi legami professionali associativi.
Attraverso queste forme è indispensabile che i dirigenti ritrovino, nelle idealità che muovono la loro azione personale, l’orgoglio del servizio che svolgono e la consapevolezza di cooperare alla crescita culturale ed educativa dei giovani, principale risorsa di ripresa e sviluppo della nazione.
I mutamenti avvenuti esigono legami professionali capaci di elaborare nuove risposte, di mantenere vive motivazioni ideali, di intervenire nel dibattito innovativo delle riforme, di essere in questo protagonisti.
Risolviamo, allora, innanzitutto le gravi contraddizioni elencate e quasi tutto l’attuale grave disagio professionale sarà ridotto. Poi, se poi ci saranno soldi da distribuire a tutti, meglio ancora !
Roberto Pellegatta, direzione DiSAL