E’ partita la “corsa” al .cloud, il nuovo nome di dominio legato alla tecnologia più “in” del momento, quella che promette di cambiare tutti i paradigmi dell’erogazione dei servizi It e che spinge i grandi colossi hitech, da Ibm a VMware, a rimodulare la propria offerta per soddisfare clienti sempre meno disposti a imbarcarsi in costosi investimenti in infrastrutture per sfruttare invece la flessibilità, l’agilità e i risparmi delle risorse disponibili sulla nuvola, “on-demand”, e attratti da provider di nuova generazione, come Amazon e Google.
CHI HA REGISTRATO IL DOMINIO .CLOUD
La guerra del cloud sembra oggi favorire infatti le aziende nate su Internet, per loro natura agili e flessibili, anche se colossi “tradizionali” come Microsoft e Ibm sono riusciti a imporre con successo la propria offerta. Il testa a testa è serrato e il mercato è gremito di fornitori – anche molte aziende telecom. Non stupisce perciò che l’acquisto del nome di dominio .cloud faccia gola a molti player, grandi e piccoli. L’azienda italiana Aruba, che si è aggiudicata a novembre 2014 il dominio .cloud battendo la concorrenza di Amazon, Google e Symantec, ed è l’unica società italiana a gestire un Registro ufficiale di TLD (Top-level domain), ha aperto il 16 novembre 2015 la fase di registrazione cosiddetta Sunrise, riservata a chi già possiede un marchio, e moltissimi dei grandi brand mondiali hanno registrato un dominio .cloud: Intel, Apple, Visa, Amazon, Bosch, Cisco, Ibm, Microsoft, Facebook, Twitter, Vodafone, ePages, Ubuntu/Canonical, e altri ancora.
Nei giorni scorsi è iniziata invece la fase del lancio pubblico del dominio .cloud, quella di General Availability, aperta a tutti: chiunque può registrare quanti e quali nomi desidera col dominio .cloud, senza limiti, restrizioni o pre-requisiti, ciascuno a un prezzo di lancio di 6,99 euro fino al 29 febbraio (naturalmente il prezzo pagato dai big nella fase Sunrise è molto più alto ma non è stato svelato). Solo nelle prime 24 ore, riferisce Aruba, sono state completate 20.000 registrazioni .cloud.
Anche le startup si sono mostrate interessate alle potenzialità di questo nome che può inequivocabilmente identificare il loro tipo di business: hanno aderito al “programma Pioneer” riservato alle aziende innovative società come Fashion cloud, Seejay, Odin, AsWeSend, Weebly, Cloudesire, Nerdalize, Unigeocloud, Food Cloud.
AZIENDE ITALIANE A CACCIA DI .CLOUD
Anche in Italia piace il .cloud? Sì: il nostro paese è al momento il secondo per richieste di registrazione del nuovo dominio dopo gli Stati Uniti (che per ora attrae il 27,8% delle registrazioni, rivela Aruba); seguono l’Italia con il 17,8% e la Germania con il 14%. Ma il cloud è un trend globale e le registrazioni sono pervenute da 141 paesi, anche mercati emergenti come Cina, India, Brasile, Iran e Kazakistan. Tra tutte le nuove estensioni, il .cloud risulta una delle più registrate negli ultimi anni, anche se in prima fila ci sono nomi che hanno fatto meno i titoli dei giornali ma che evidentemente nascondono business molto fiorenti come .win, .club e .wang.
QUANTO VALE IL MERCATO DEL CLOUD
Secondo l’ultimo studio di Gartner il mercato dei servizi di public cloud (quindi i servizi che le aziende comprano da un fornitore esterno) raggiungerà un valore globale di 204 miliardi di dollari a fine 2016; tolto il cloud advertising (90,3 miliardi di dollari nel 2016 e tasso di crescita del 13,6%), il software as a service è la fetta più consistente del mercato (37,7 miliardi di dollari nel 2016 con crescita del 20,3% anno su anno) ma l’infrastructure as a service è il segmento a più rapido sviluppo, +38.4% per un valore di 22,4 miliardi.
“L’infrastructure as a service o IaaS continua a registrare la crescita più robusta perché le aziende abbandonano i progetti di realizzazione di grandi data center proprietari e scelgono di usare le infrastrutture on-demand nel cloud”, spiega l’analista di Gartner Sid Nag. “Alcuni leader di mercato si sono conquistati una posizione di vantaggio in quest’area”. Chi sono questi leader? Secondo i dati dello scorso luglio di Synergy Research, i fatturati di Amazon Web Services (AWS), Microsoft, Google e Ibm nell’infrastructure services rappresentano più della metà del mercato globale.
“C’è posto anche per altri provider più piccoli ma di fatto ora il public cloud è dominato da fornitori di grandissima scala che possono permettersi di costruire enormi data center per coprire tutti i continenti”, spiegano i ricercatori. Questo mese Synergy Research ha riferito che ancora nel quarto trimestre 2015 AWS domina il mercato del cloud infrastructure services con una quota mondiale che supera il 31%. Microsoft e Google hanno tassi di crescita più alti ma per ora non intaccano il primato di Amazon. Comunque, i big del mercato restano invariati: nell’ordine, Amazon, Microsoft, Ibm (che è più forte del cloud privato e ibrido) e Google.
LE MANOVRE DEI BIG
Che la partita del cloud si giochi tra i grandi dell’hitech e i colossi del web è stato dimostrato ancora una volta nei giorni scorsi da Ibm, la cui strategia degli ultimi anni ha puntato con decisione sull’offerta di servizi cloud computing. Durante la conferenza InterConnect a Las Vegas l’azienda americana ha annunciato una partnership strategica con VMware, il colosso della virtualizzazione, il cui obiettivo, sottolinea Forbes, è portare i clienti di VMware sull’Ibm Cloud. Altri annunci arrivati da InterConnect sono tutti nell’ottica di erodere quote di mercato ai concorrenti del cloud – Microsoft, Google e soprattutto Amazon Web Services – offrendo sempre più strumenti sulla “nuvola” (per esempio c’è l’accordo con Bitly, per mettere nel cloud il suo database di oltre 25 miliardi di link, l’ampliamento dell’alleanza con Apple e il suo linguaggio open source di programmazione Swift, che viene portato nel cloud, la partneship con la comunità di sviluppatori GitHub, e così via).
La risposta di Amazon non si è fatta aspettare: il colosso del web sta offrendo aggressivamente i propri servizi cloud alle grandi banche degli Stati Uniti, proponendo i suoi server come alternativa alla costruzione di data center proprietari: secondo la stampa americana, i primi contatti sarebbero già stati avviati con JP Morgan e Citigroup. Un affondo contro Microsoft, Google e soprattutto Ibm, che conta tra i suoi clienti proprio le grandi banche mondiali. Naturalmente Amazon dovrà dimostrare di saper garantire gli altissimi standard di sicurezza richiesti dal settore bancario ma ha già clienti al suo attivo, come Capital One Financial che sta cercando di ridurre i suoi data center da otto a tre usando il public cloud di Amazon.
L’anno scorso per la prima volta Amazon ha svelato i risultati della divisione Web Services scorporati dal resto del gruppo: le vendite sono salite del 70% a 7,88 miliardi di dollari, mentre il fatturato complessivo è cresciuto “solo” del 20% a 107 miliardi.
BOOM O BOLLA?
A questo proposito però gli analisti di Gartner hanno pubblicato un report per mettere in guardia su possibili risultati finanziari “gonfiati” in ambito cloud.
Molti vendor “rilasciano report complicati e poco trasparenti”, secondo i ricercatori Ed Anderson e David Mitchell Smith. Spesso infatti verrebbero incluse tecnologie non cloud nei guadagni cloud. Un fornitore può, per esempio, conteggiare le entrate di tecnologie abilitanti al cloud, come server e software di virtualizzazione, o quelle provenienti da servizi di hosting o da consulenze e servizi professionali relativi al cloud: tutti componenti del cloud, ma non veri e propri servizi cloud, secondo Gartner. La società di ricerche ha passato al vaglio i report dei grandi fornitori del settore – di nuovo Amazon, Google, Microsoft, Ibm ma anche Salesforce e Sap e ha “promosso” praticamente solo Amazon e Salesforce, considerando più confusi i report finanziari degli altri provider.