Premesso che il pensiero espresso in questa sede verte su una lettura sommaria del decreto legge appena firmato dal Presidente della Repubblica (pubblicato in Gazzetta Ufficiale) e che, comunque, rispecchia interamente il contenuto del Comunicato Stampa ufficiale del Consiglio dei Ministri del 11 febbraio 2016, si potrebbe dire, mutuando da un economista e giornalista che ha ripreso una famosa battuta di Warren Buffet, che “solo quando la marea si abbassa scopri quelli che stavano nuotando senza costume”.
Ebbene si, l’introduzione della way out nel decreto legge di riforma delle Banche di Credito Cooperativo, ha fatto abbassare la marea! E forse ci si sta rendendo conto solo ora che sono in tanti a nuotare senza costume…
Ci sarà tempo per approfondire il decreto appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma leggendo la rassegna stampa di questi ultimi 5 giorni sembra che, grazie all’introduzione (confermata) della soglia minima dei 200 milioni di euro di patrimonio netto (e non più di riserve indivisibili come era stato inizialmente annunciato) richiesta per la trasformabilità in società per azioni delle Bcc che non intendono aderire al gruppo unico, tutti abbiano (ri)scoperto l’art. 45 della Carta Costituzionale. C’è addirittura chi urla e richiama i giorni del fascismo che sciolse le associazioni cooperative, come il vicepresidente vicario di Confcooperative Maurizio Ottolini, o chi, come il presidente di Federcasse, Alessandro Azzi, ricordandosi di essere anche avvocato, invoca, con il suo consueto stile alquanto pacato, possibili rilievi di costituzionalità.
Caos e stupore serpeggia in ogni settore. Toscani contro emiliani-romagnoli, trentini e altoatesini rimasti senza parole, politici della maggioranza (e dello stesso partito) che litigano tra loro circa la legittimità del suddetto limite di 200 mln., le opposizioni che insorgono denunciando il conflitto di interessi e dicendo che è stato snaturato un testo condiviso (condiviso da chi?), centristi che “frenano” e rinviano alla discussione in Parlamento. Anche i quotidiani che non si erano mai occupati della riforma delle Bcc discutono della legittimità della norma, definita ad personam, e dei presunti favori procurati alla Bcc di Cambiano nella quale lavora, con la qualifica di dirigente, il padre del sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti.
Orbene, senza entrare troppo in inutili tecnicismi, è evidente a tutti cosa comporta l’affrancamento delle riserve indivisibili pagando un’imposta (benché rilevante) del 20%, sia per i soci, i quali vedrebbero aumentare notevolmente il valore della propria quota (circa 28 volte, nel caso della Bcc di Civitanova Marche e Montecosaro), sia per l’intero sistema del credito cooperativo che registra un aumento considerevole dei rischi di fuori uscita di Bcc incentivate a ricercare, nell’arco dei 18 mesi, integrazioni (create ad hoc) per arrivare alla soglia minima dei 200 mln. di patrimonio netto. Non occorre essere né un giurista né un costituzionalista per capire che la norma di cui si discute appare discriminatoria e, quanto meno, di dubbia legittimità. Perché 200 mln. e non 100 o 50 mln., tenuto conto che il limite minimo di capitale per costituire una società per azioni che esercita attività bancaria è appena di 10 mln. e che vi sono attualmente numerose banche società per azioni con un patrimonio netto abbondantemente inferiori a 50 mln. di Euro?
Secondo Enrico Zanetti, viceministro all’Economia, deve essere un obbligo “per tutti o per nessuno”, anche perché “la soglia dei 200 milioni è arbitraria e non condivisibile”. Il viceministro, intervenuto a L’Intervista di Maria Latella su Skytg24, ha precisato: “Ad avviso di Scelta Civica non è condivisibile, noi abbiamo un’impostazione liberale e preferiremmo dare a tutti la possibilità di scegliere. Se esigenze superiori di sistema rendono opportuna una scelta un pò dirigista per cui si dice ‘bisogna entrare tutti’, allora però ci si entra tutti” (ndr. non si comprende quali possano essere le esigenze superiori per un sistema, quello delle Bcc, che presenta mediamente coefficienti di solidità superiori a quelli del sistema bancario nazionale e che per legge non può detenere prodotti derivati).
Diciamo pure che va bene bene, anzi va benissimo, che, grazie alla “sorpresa” way out, tutti stiano prendendo coscienza e consapevolezza della complessità di questa riforma e dei rischi di snaturare la cooperazione di credito, rischi che potrebbero addirittura aprire la strada per la fine del sistema cooperativo in generale.
Ma dei problemi di legittimità costituzionale legati all’obbligo di aderire ad una holding unica che avrà la forma giuridica di società per azioni senza way out o della capacità della holding stessa di risolvere realmente i veri problemi del credito cooperativo, chi ne ha parlato sino ad ora? Per la verità il decreto legge non impone la costituzione di una sola holding ma, confermando la soglia minima di patrimonio netto annunciata pari ad 1 mld. di euro, sembrerebbe imporla di fatto (più che di diritto), specie se si tiene conto dei suddetti rischi di fuori uscita in massa di numerose Bcc a seguito della way out.
In ogni modo, con riferimento al primo aspetto (profili di costituzionalità), era facilmente comprensibile che nessuno avesse voglia di ascoltare il grido di allarme di una “banchetta” che opera nelle Marche e che viene etichettata come “ribelle”; ma non prendere in considerazione nemmeno il professor Francesco Capriglione, già ordinario della Luiss e dirigente del servizio legale della Banca d’Italia, il quale ha tenuto una bellissima relazione sul tema nel corso del convegno promosso dalla Fondazione Capriglione e dall’Università Luiss di Roma, e, soprattutto, ignorare l’organo di vigilanza, che si è espresso chiaramente in più di una occasione e, da ultimo, proprio dinanzi alle Commissioni Riunite di Camera e Senato per mezzo di Carmelo Barbagallo, Capo del Dipartimento Vigilanza Bancaria e Finanziaria di Banca d’Italia, appare veramente incomprensibile e desta più di un sospetto. A tal fine, si riporta l’estratto dell’intervento di Carmelo Barbagallo tenuto il 15 ottobre 2015 difronte alle Commissioni riunite di Camera e Senato (pag. 8): “Un aspetto di centrale importanza della riforma è il requisito minimo di capitale della capogruppo.
Il requisito di capitale determina di fatto le dimensioni operative del gruppo: un livello troppo basso non favorirebbe la formazione di gruppi ampi e ben diversificati, caratterizzati da sufficienti economie di scala, condizione necessaria per attrarre capitali di rischio, per espletare adeguatamente servizi e funzioni di produzione accentrati, per esercitare incisivamente controlli strategici e operativi. La capogruppo deve inoltre poter disporre di risorse patrimoniali sufficienti a sostenere eventuali difficoltà di singole componenti o anche di una porzione significativa del gruppo. Al tempo stesso, una soglia di capitale tanto elevata da poter essere raggiunta agevolmente solo da un gruppo costituirebbe una barriera all’entrata la cui coerenza con il dettato costituzionale andrebbe valutata attentamente; tale scelta risulterebbe inoltre difficile da giustificare nell’analisi d’impatto alla base della norma. Il livello minimo di capitale – che, come detto, non dovrebbe essere tanto elevato da inibire la possibilità, ove espressa dal mercato, di costituire più gruppi – può essere fissato direttamente dalla legge; la legge potrebbe demandare alle norme secondarie la possibilità di incrementarlo. La soglia potrebbe essere alternativamente fissata dalla normativa secondaria, sulla base di rigorosi criteri di vigilanza prudenziale, supportati da un’attenta analisi d’impatto sottoposta a pubblica consultazione”.
In altre parole, s’intende affermare che, per il consolidamento e l’irrobustimento del sistema delle Bcc senza incorrere in nessuna violazione di norme attualmente vigenti, sarebbe stato sufficiente proporre la costituzione di più gruppi cooperativi; eppure, per circa un anno, i vertici nazionali e regionali del credito cooperativo si sono ostinati a perseguire la via della holding unica obbligatoria! Circa la capacità della holding unica di risolvere i veri problemi del credito cooperativo, occorre chiedersi se, oltre al predetto obiettivo di consolidamento (l’unico obiettivo attualmente citato dai vertici di Federcasse), ve ne siano altri tipo: efficienza, innovazione e, soprattutto, governance.
In caso di risposta affermativa non vi sarebbero dubbi che 2 o 3 gruppi posti in concorrenza tra loro potrebbero realizzare tali obiettivi (vedasi a tal proposito questo articolo) meglio della holding unica obbligatoria con way out, atteso che sembra oramai pacifico che, arrivati a questo punto, anche in sede di conversione del decreto, delle due l’una: o il gruppo unico con possibilità di way out o la possibilità di poter costituire più gruppi per poter scegliere a quale appartenere abbassando il limite minimo previsto di 1 mld. a 5/600 mln.
A dimostrazione del fatto che il problema della governance del credito cooperativo non è una fissazione della Bcc di Civitanova Marche e Montecosaro, si riporta l’estratto dell’intervento, sempre di Carmelo Barbagallo, tenuto a Bolzano il 12 febbraio 2015 presso la federazione delle cooperative Raiffeisen ed in cui, tra l’altro, venne, per la prima volta, trattata la possibilità di costituire più gruppi quale modalità di risoluzione delle difficoltà del credito cooperativo (pag. 3): “L’aspetto di maggiore vulnerabilità delle banche locali è rappresentato dal marcato deterioramento della qualità dei prestiti, per effetto, innanzitutto, di due pesanti recessioni dell’economia, ma anche di scelte gestionali e allocative rappresentative di un rapporto a volte non equilibrato con il territorio di insediamento. Ciò in primo luogo a causa del materializzarsi del rischio di “cattura”: il legame con il territorio, che teoricamente dovrebbe generare vantaggi informativi in grado di migliorare la selezione del merito di credito, può viceversa comportare condizionamenti tali da compromettere l’oggettività e l’imparzialità delle decisioni di finanziamento. Si registra , inoltre, il tentativo in diversi casi di compensare le difficoltà reddituali attraverso la diversificazione dell’operatività in aree territoriali meno conosciute, perseguita mediante la concessione di crediti a controparti di dimensioni più elevate, poco note e poco meritevoli. L’esperienza della Vigilanza dimostra che l’uno o l’altro di questi effetti o, nei casi più gravi la somma dei due, sono alla base della maggior parte delle crisi delle banche di piccola dimensione”.
E ancora (pagg. 6 e 7): “La capacità di risposta delle banche del territorio appare tuttavia limitata, anche a causa delle debolezze presenti negli assetti di governance. La Banca d’Italia le sottolinea da lungo tempo: (i) scarsa dialettica all’interno dei board e assenza di effettivi contrappesi alle figure apicali, a causa di fattori che limitano la funzionalità degli organi, quali le competenze non adeguate e non abbastanza diversificate, il limitato ricambio, anche generazionale, degli esponenti, il numero elevato di membri; (ii) presenza frequente di conflitti di interesse, cui non corrisponde l’attivazione di efficaci processi interni di prevenzione e gestione; (iii) carenze dei meccanismi di pianificazione, che si riflettono in ritardi e scarsa lungimiranza delle scelte strategiche; (iv) debolezze nell’assetto dei controlli interni che, in assenza di adeguate risorse e professionalità, determinano il disallineamento dell’attività della banca rispetto alle strategie e alle politiche aziendali e ai canoni di sana e prudente gestione. Sempre più spesso tali disfunzioni sfociano in situazioni di dissesto.”.
In definitiva, in attesa del dibattito parlamentare sul decreto e della sua definitiva conversione in legge, se, a fronte di interessi confliggenti in cui qualcuno pensava di prendere tutto e qualcun altro pensava di favorire qualche amico, si riuscisse a riportare il dibattito nella corretta dimensione, si potrebbe finalmente auspicare in una riforma del credito cooperativo nel reale interesse delle Bcc, della cooperazione in genere e del Paese.