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Cosa può fare l’Italia in Europa

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il livello di tensione nei rapporti tra il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi e la Commissione Europea da alcuni mesi ha raggiunto temperature sconosciute alla nostra storia, da molti considerata come troppo filoeuropeista o addirittura prona a Bruxelles.

In questo contesto, è maturata anche la decisione di mandare il Vice Ministro Carlo Calenda a Bruxelles, come Rappresentante permanente presso l’Unione europea, in sostituzione dell’ambasciatore Stefano Sannino, considerato troppo “morbido” rispetto alla burocrazia “insensibile” all’agenda italiana.

Ne è scaturito un dibattito sia sulla correttezza della decisione, considerata lesiva delle prerogative dei nostri diplomatici, sia sulla sua appropriatezza ed efficacia: una personalità di caratura politica sposta l’asse della politica comunitaria ed apre ad un ruolo più incisivo dell’Italia? Non penso.

La formazione del processo decisionale comunitario è assai complessa ed articolata e pensare di modificarla con un Rappresentante permanente di peso politico mi sembra assai naif.

Mi limito ad esaminare il tema da due aspetti:

– La formazione delle norme europee: prima di approdare in Consiglio ed in Parlamento, una norma attraversa un lungo processo che coinvolge, attraverso comitati, gli Stati membri e i rappresentanti delle categorie economiche interessati. L’agenda di questo processo, la partecipazione attenta di rappresentanti ministeriali adeguatamente formati e competenti, il coinvolgimento a livello di paese degli stakeholders rappresentano un tema, ahimè storico, di assoluta debolezza italiana. E questo si supera a Roma non a Bruxelles: chi ha vissuto direttamente l’esperienza comunitaria ha più volte assistito alla debolezza nella fase ascendente del processo di costruzione delle norme ed è rimasto spesso stupito della efficienza e prontezza di altri paesi, iniziando dalla Spagna, citata proprio per non cadere nel solito paragone con la Germania o altri paesi nordici;

– La mancanza di una adeguata consistency (possiamo tradurla come “coerenza continuativa”?) nel presidio politico: il legame tra governo nazionale e Commissario/i nel caso italiano è troppo spesso stato debole. La debolezza ha generato, da un lato, che nella nostra storia i Commissari italiani fossero spesso quelli più “fedeli” alla istituzione comunitaria e, dall’altro, che distrazioni o violazioni dalla normativa europea conducessero rapidamente all’apertura di procedure di infrazione. Cosa che con altri Paesi invece non era possibile per la capacità di fare sistema, di fare blocco, in particolare a livello di Collegio dei Commissari, oltre che di funzionari italiani presenti nella Commissione europea. Qualche esempio: andiamo a vedere per quanti anni la Francia è riuscita a “raffreddare” iniziative comunitarie sul tema aiuti di stato alla EDF in materia di gestione delle scorie nucleari? O l’attivismo contro l’Italia sulle concessioni idroelettriche quando la maggioranza degli altri stati membri ha normative assai più conservative della nostra?

In conclusione, se non si opera nella revisione e rafforzamento dei presidi delle fasi ascendenti delle decisioni comunitarie, il pugno sul tavolo potrebbe non servire a molto anzi potrebbe isolarci maggiormente.

La creazione di maggioranze intorno ad un testo di direttiva o decisione spesso viene “confezionata” prima della riunione dei rappresentanti permanenti ed è lì che il Governo dovrebbe orientare i suoi sforzi, sapendo che necessita di tempi, organizzazione e risorse umane, in particolare i nostri esperti nazionali, adeguatamente qualificate e motivate.

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