Il Palast der Republik di Berlino, nell’idea di Prasser, l’architetto che lo aveva concepito, doveva rappresentare lo spazio in cui rappresentato e rappresentante avrebbero condiviso lo stesso palco nel realizzarsi di una sintesi totale del collettivismo. Il concentrato estetico, – cemento e acciaio -, dell’ideologia della Germania Orientale. Un’opera monumentale resa possibile dalla spesa incondizionata dello Stato, entità assoluta.
Il fatto è che la Germania Est, attraverso l’apparato sovietico che l’amministrava, oscurava le eccellenze. Soprattutto in quei campi che abbisognavano di creatività e talento. Perché, in ossequio alla stessa ideologia, ogni attività, sia che fosse di pensiero, sia che fosse di fatica, doveva venire parcellizzata e distribuita tra i membri della comunità.
Prasser, che aveva nella mente il Palast, cercò a lungo la sponda in importanti aziende edili di Berlino per rendere cantierabile il progetto ma senza successo.
Fu solo la promessa di un bacio, nello strizzare dell’occhio alla segretaria di una di queste compagnie, che mise in moto il tutto. Fu quella promessa d’amorosi sensi a mettere in bolla l’accordo che pose le fondamenta del più monumentale dei teatri della politica della DDR.
Nel 2009 poi, il Palast finì sul bagnasciuga della rimozione. Quella liturgia tutta tedesca di rimuovere il passato svaporandone i simboli. Pezzo a pezzo il Palast venne smantellato. E nel cortocircuito che oggi corre lungo i circuiti della finanza, anziché lungo le piste dei circuiti stampati, i pilastri d’acciaio del Palast hanno preso la via di Dubai. Tant’é.
Da un bacio a Dubai: il Palast di Berlino
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