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Perché si torna a parlare di tagli al debito pubblico

Pier Carlo Padoan

Sul debito pubblico, il deficit e la crescita il dibattito si è riaperto. Si è fatto tanto, ma rischia di non bastare. Il pil rallenta: nel 2015 è stato del +0,7%; quest’anno, secondo l’Ocse, non dovrebbe superare l’1%. Un arretramento netto rispetto al +0,9% ed al +1,6% stimati dal Def a settembre.

A fine dicembre, il debito delle Pa è stato di 2.1670 miliardi di euro (+33,8 miliardi rispetto al 2014), inferiore di 15,5 miliardi rispetto al fabbisogno (49,3 miliardi) per via delle minori disponibilità del Tesoro (-10,7 miliardi), scarti e premi di emissione (-5,1 miliardi), ed oneri di cambio (+0,3 miliardi). Il fabbisogno è stato pari 3% del pil, rispetto al 2,6% programmato.

Quest’anno, senza impostare manovre correttive, la minor crescita appesantirebbe il rapporto debito pubblico/pil, con il rischio di mancare l’obiettivo di ridurlo rispetto all’anno precedente, dopo ben nove anni di ininterrotti peggioramenti, passando dal 132,8% al 131,4%. Si metterebbe in discussione un obiettivo importante, considerando che con la Legge di Stabilità per il 2016 il deficit è stato peggiorato, portandolo al 2,2% del pil rispetto all’1,4% del tendenziale. Se saltasse nuovamente la riduzione del rapporto debito/pil, sarebbe ancora una volta il denominatore a far franare gli sforzi di risanamento, e la dimostrazione che l’economia rallenta nonostante il più elevato deficit.

È su questi argomenti che si è riaperto il dibattito sul debito pubblico, con un fronte di giudizi quanto mai variegato. Ferruccio de Bortoli, con un editoriale, ha manifestato profonda preoccupazione, sottolineando la necessità di ridurre il debito e di perseguire il pareggio strutturale:. Perdere ancora una volta la sfida alla riduzione del rapporto debito/pil ci esporrebbe nuovamente alla speculazione dei mercati, considerando la recente ondata irrazionale che ha colpito in Borsa le banche italiane, ingiustamente penalizzate anche per la grande quantità di titoli pubblici detenuti (389 miliardi di euro). Negli anni scorsi, rammenta de Bortoli, erano state avanzate varie proposte non traumatiche (cioè senza una patrimoniale) di riduzione del debito: valorizzazione del patrimonio pubblico, emissioni di obbligazioni e riacquisto di titoli di Stato. Idee forse non del tutto praticabili, ma frettolosamente accantonate pur essendo la fase dei tassi bassi, se non negativi, favorevole a operazioni di questo tipo. Oggi non se ne discute più, come se il problema fosse stato rimosso o considerato inesistente: si perderebbe nuovamente l’occasione favorevole del risanamento offerta dai bassi tassi di interesse derivanti dalla politica monetaria espansiva decisa dalla Bce, così come nei primi anni dello scorso decennio non fu colta la medesima finestra di opportunità che caratterizzò l’ingresso nell’euro.

Anche l’ex premier Mario Monti è intervenuto, rilevando che mentre il deficit che finanzia la spesa corrente è distruttivo del risparmio e che a tal fine non si può derogare al pareggio di bilancio, gli investimenti pubblici in deficit contribuiscono alla crescita economica. Gli sforzi del governo dovrebbero pertanto concentrarsi sulla flessibilità prevista per questa finalità, riservata ai Paesi che non sono in procedura di infrazione, piuttosto che disperdersi in una richiesta a largo spettro di flessibilità che rischia di proiettare un’ immagine sbagliata dell’Italia.

L’ex ministro Giorgio La Malfa è partito da una serie di considerazioni: i Paesi dell’Eurozona crescono meno dei Paesi europei non-euro e molto meno del resto del mondo; hanno una disoccupazione doppia degli Stati Uniti; il Quantitative easing della Fed funziona, mentre quello della Bce no. Tutto indica che l’Europa dovrebbe cambiare strada. Le cause sono note: nel creare la moneta uni­ca, non venne previsto alcu­no strumento per stimolare la crescita economica. Tutta l’attenzione si concentrò sui conti pubblici, fissando l’obbligo del pareggio del bilancio. L’idea che vi siano momenti in cui è necessario usare il deficit per sostenere l’eco­nomia venne scartata senza appello.

Cosicché, nel pieno della crisi seguita al crollo finanziario del 2007-2008, si imposero con il Fiscal compact percorsi accelerati di riduzione dei de­ficit e dei debiti pubblici, che hanno portato alla recessione ed all’aumento della disoccupazione. Per uscire dalla crisi, serve una terza via: lo stimolo all’economia dovrebbe essere forte, concentrato nel tempo e in deficit: ser­virebbero circa due punti per­centuali oltre il 3% per almeno due anni, da destinare a riduzioni di imposte e a investimenti pub­blici ben fatti. E, per evitare l’au­mento del rapporto debito-Pil, sarebbero necessarie alienazioni di cespiti pubblici. Se questa po­litica avesse successo, il reddito si riprenderebbe e fra due anni il rapporto debito-Pil scenderebbe di più e così il deficit. È una stra­tegia, non semplice perché in contrasto con le regole europee, che potrebbe incappare in diffi­coltà sui mercati finanziari, ma dotata di una logica interna. Secondo La Malfa, se non riparte la crescita, il problema del de­bito pubblico si aggraverà, fino alla crisi. O si rischia, o si finisce in un vicolo cieco.

Nel dibattito c’è una chiara convergenza: una strategia di mero galleggiamento, volta ad ottenere spazi di flessibilità per finanziare in deficit la sola spesa corrente, non serve alla crescita e preoccupa i mercati. Servono comunque investimenti pubblici finanziati in deficit: il dissenso è tra chi sostiene la necessità di perseguire nel frattempo il pareggio di parte corrente, e chi ritiene che questo obiettivo sia socialmente insostenibile ed economicamente controproducente, perché annullerebbe lo sforzo fatto con gli investimenti aggiuntivi.

C’è da chiedersi perché se il debito pubblico italiano è cresciuto ininterrottamente per nove anni, nonostante si siano avvicendati governi che hanno sempre praticato politiche di severità fiscale, promettendo una riduzione dall’anno successivo, il dibattito si riapra solo oggi. Solo oggi si riapre il dibattito sul ridimensionamento delle previsioni di crescita, quando non vi è stato un solo anno in cui sono state rispettate le ipotesi del Def o le previsioni del Fondo monetario internazionale e dell’Ocse.

C’è una prima ragione: ai tassi correnti, talora negativi, il debito pubblico italiano non interessa più. Negli anni scorsi, rappresentava per le banche una risorsa di eccezionale valore, a rischio zero, visto il vantaggio di acquistarli con la liquidità erogata dalla Bce all’1%, pagando lo 0,5% per la garanzia pubblica concessa dal Salva Italia sulle obbligazioni conferite come collaterali. Mentre si incassavano i lauti interessi che il mercato riteneva indispensabili per assorbire le nuove emissioni, i cittadini italiani hanno continuato a pagare, con le tasse. Inoltre, un po’ alla volta si sono azzerate le ricche plusvalenze incassate vendendo titoli ad alto rendimento.

C’è poi una terza questione: Berlino chiede limiti alla detenzione di titoli pubblici da parte delle banche, commisurati al capitale, come condizione per portare a buon fine la direttiva sulla tutela europea dei depositi bancari. Se dovesse passare questa impostazione e le banche italiane non volessero disfarsi dei titoli che hanno in portafoglio, dovrebbero ricapitalizzare. Vendendoli, provocherebbero un pericoloso rialzo dei tassi, con conseguenti perdite: sarebbe, comunque, un harakiri. È di questo di cui non si discute: il cambiamento delle regole. Mentre il debito pubblico italiano è detenuto all’interno, dalle banche, il debito pubblico tedesco è detenuto soprattutto dall’estero: con i rendimenti negativi, sono gli investitori esteri che pagano per finanziare le spese del bilancio tedesco. In Italia, sono i cittadini italiani che remunerano le banche che detengono i titoli e distribuiscono dividendi.

C’è poi un’altra questione: la bilancia dei pagamenti correnti dell’Italia è in forte attivo, ribaltando i trend negativi degli anni pre-crisi, fino al marzo 2013. Nel 2015, il saldo positivo è stato di 34,9 miliardi di euro (2,1% del pil) rispetto ai 30,8 miliardi dell’anno precedente, con un contributo di 53,6 miliardi della componente merci. Di questo afflusso di risorse non ha beneficiato l’economia reale, né con maggiori consumi né con la ripresa degli investimenti produttivi: sono aumentati i depositi bancari, ma ancor più la raccolta dei Fondi. Inoltre, nel 2015 c’è stato un ulteriore deflusso di risorse: gli investimenti di portafoglio sull’estero sono aumentati di 96,3 miliardi di euro. Le prospettive di scarsa crescita del mercato interno scoraggiano: il ciclo perverso si avvita.

Se ci fosse un problema di produttività, non si spiegherebbe il successo commerciale del Made in Italy. La scarsa crescita dipende dai mancati investimenti produttivi: l’enfasi posta sulla riduzione del costo del lavoro e del cuneo fiscale, così come gli sgravi contributivi sulle assunzioni, hanno confermato la convinzione che si possano mantenere inalterati i margini di profitto comprimendo i salari e con la flessibilità del lavoro.

È una soluzione dal fiato corto, che porta al progressivo deperimento. Servono grandi interventi sul piano della organizzazione amministrativa e dei servizi collettivi, profondi cambiamenti nelle convenienze ad investire, occhi aperti sui mutamenti delle regole che condizionano i mercati. Il dibattito sul debito pubblico che continua a crescere senza sosta, mentre la crescita economica langue, suona un campanello d’allarme: l’austerità fiscale e la deflazione competitiva hanno fallito.


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