Ha conquistato la scena dentro e fuori dal Movimento 5 stelle. E pensare che nel 2010, quando si candidò come consigliere comunale nel suo paese, Pomigliano d’Arco, raccolse soltanto 59 voti. Adesso Luigi Di Maio, trent’anni il prossimo luglio, è diventato un punto di riferimento.
Prima di presentarsi alla Camera dei deputati, grazie alle 189 preferenze avute nelle “parlamentarie” online, faceva il web master e studiava all’università di Napoli. Prima ingegneria, poi giurisprudenza. Appena sbarcato a Montecitorio si è gettato nei regolamenti del Palazzo. Chi gli sta vicino sostiene che li conoscesse talmente bene che quando l’assemblea dei deputati grillini ha scelto un candidato per la vice presidenza della Camera era scontato che la spuntasse lui. A 26 anni e mezzo è stato il più giovane numero due di Montecitorio di sempre. Un ruolo che svolge in maniera impeccabile, anche secondo i colleghi. Peraltro si è aggiudicato la palma del più elegante del Movimento dopo il primo mese di legislatura. Si sa, l’abito, spesso, fa il monaco.
Ma Luigi Di Maio è anche un custode del pensiero grillino. Fa parte degli attivisti che hanno sempre guardato a destra. Il padre, un imprenditore edile, è stato anche un militante politico. Lui è entrato presto nel cuore di Gianroberto Casaleggio, il vero motore del non-partito. Innanzitutto per le capacità dimostrate sul terreno della comunicazione. Il fatto poi che sia fidanzato con Silvia Virgulti, la “zarina” del Movimento, coach tv dei parlamentari 5 stelle, ha agevolato i rapporti con il guru del web. Di lui si è accorto anche Forbes. La prestigiosa rivista americana di economia e finanza l’ha inserito tra gli under 30 più influenti in Europa. Di Maio ne ha preso spunto per ribadire: “Io voglio delle buone idee, dei buoni programmi che sopravvivano ai singoli individui. Per questo faccio parte del Movimento 5 stelle. Questo riconoscimento dimostra solo che stiamo incidendo con forza nelle scelte politiche, sia a livello nazionale sia europeo, ormai ce lo riconoscono tutti”. Pochi giorni prima era stato il Financial Times a lodare “il Movimento moderato e affabile di Luigi Di Maio”. Grillo aveva anticipato i tempi. A settembre, alla fine di una conferenza stampa a Palazzo Madama, il comico genovese non aveva usato giri di parole: “Maledetto, sei il leader!”, gli aveva detto sorridendo. Un’incoronazione che ha creato dissapori nel non-partito, visto che uno dei mantra a 5 stelle è che il leader sia il Movimento stesso e che i programmi siano molto più importanti delle persone. “Ognuno vale uno”, secondo il motto (per la verità non sempre rispettato) di Casaleggio e company. Di Maio candidato premier dei 5 stelle? La voce s’è cominciata a diffondere. Tant’è che è stato lo stesso Grillo a precisare: “Il candidato premier si sceglierà in rete, come abbiamo sempre fatto. Presenteremo una squadra di governo con un programma deciso dagli iscritti”.
Insomma, quella su Di Maio leader è stata soltanto “una bella battuta”, come la derubricò un altro big pentastellato, Roberto Fico, presidente della Vigilanza Rai. Proprio quest’ultimo è finito, con Di Maio, nel tritacarne azionato dalla vicenda di Quarto. Nel Comune vicino Napoli un consigliere del Movimento è stato travolto da un’inchiesta partita da alcune intercettazioni secondo le quali presunti esponenti della camorra avrebbero portato voti al Movimento. Lui, Giovanni De Robbio, si è dimesso (ed è stato espulso dal non-partito), ma il sindaco Rosa Capuozzo, sempre 5 stelle, ha resistito all’editto con il quale Grillo le ha imposto un passo indietro.
Non tanto per colpe nella vicenda (le decisioni del sindaco confermano anzi l’impegno contro la Camorra), ma per non aver denunciato presunte minacce (secondo la Capuozzo “pressioni”) ricevute dal consigliere che sarebbe stato sponsorizzato dalle cosche. “Fico e Di Maio sapevano da mesi, gli avevo chiesto di intervenire” ha detto il sindaco di Quarto nell’aula consiliare e poi di fronte alla commissione Antimafia. Apriti cielo. I due esponenti sono diventati il bersaglio delle accuse degli altri partiti, soprattutto del Pd, che ha chiesto a entrambi di dimettersi. Strumentalizzazioni, certo, che tuttavia hanno riacceso i riflettori sulla gestione del Movimento, visto che ci sono stati problemi anche in diversi Comuni dei 16 conquistati dai 5 stelle. Problemi sfociati addirittura con il divieto di usare il simbolo (che è di proprietà esclusiva di Grillo), come accaduto a Gela e, appunto, a Quarto.
Pure a Parma, la città più importante guidata dal non.partito, le cose non vanno benissimo, le tensioni con Federico Pizzarotti sono sempre più forti. Di Maio ha fatto buon viso a cattivo gioco. Ha spiegato di non aver mai saputo delle minacce ricevute dal sindaco di Quarto, che gli aveva sempre parlato di “pressioni” (circostanza più volte confermata anche dalla Capuozzo) ma, in un’epoca in cui conta più la comunicazione che la politica, la vicenda non poteva che diventare un incidente per scatenare una guerra di propaganda. Il principale volto del Movimento, uno dei cinque esponenti che fa parte del direttorio, ne ha risentito. Secondo i sondaggi ha perso due o tre punti percentuali di credibilità. Ma resta comunque tra i politici più apprezzati in modo trasversale. Secondo i dati forniti il 22 gennaio dall’istituto Ixè di Roberto Weber per Agorà (Raitre), con il 24% di fiducia viene subito dopo il premier Renzi (che sta al 30%) e prima di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, ha un paio di punti in più di Beppe Grillo.
(Articolo uscito sull’ultimo numero della rivista Formiche)