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Ecco come e perché i Tory di Cameron si dividono sulla Brexit

Come da tradizione, il partito Conservatore si spacca sull’Europa, anche se David Cameron è convinto di presentarsi all’appuntamento referendario del 23 giugno con la vittoria in tasca.

La giornata di ieri ha determinato gli schieramenti in campo. In mattinata, dagli schermi della Bbc, intervistato da Andrew Marr, il leader dei Tories ha perorato la causa di un Regno Unito “migliore, più sicuro e più prospero” all’interno dell’Unione europea, dopo aver raggiunto l’accordo con gli altri 27 capi di Stato e i vertici delle istituzioni europee a Bruxelles.
Europeista riluttante, Cameron certamente non si farà vedere in pubblico avvolto da una bandiera europea, o vestito, come fece ai tempi del referendum del 1975 Margaret Thatcher quando era filoeuropea, con un abito cucito addosso con i colori delle bandiere delle nazioni che facevano parte della vecchia Cee. Né trasparirà dalle sue parole, l’idealismo di un europeista convinto come Ted Heath, premier conservatore che traghettò, dopo mille peripezie – e ripetuti non di de Gaulle – la Gran Bretagna in Europa.

Il premier sa che dopo che l’ex leader del partito – e attuale ministro del Lavoro – Iain Duncan Smith, il ministro della Giustizia, Michael Gove, e altri quattro ministri hanno pubblicamente espresso la propria preferenza per l’uscita dall’Ue, gli equilibri all’interno dei Conservatori sono tremendamente precari.

Tenere i toni bassi sull’Europa sarebbe una novità per i Tories. Dopo che nel 1990 i no, no, no della Thatcher – nel frattempo convertita all’euroscetticismo – al progetto di “superstato” europeo di Jacques Delors, il partito andò in frantumi. Il successore John Major fu ostaggio dell’ala più intransigente dei Conservatori durante la ratifica del Trattato di Maastricht, e furono gli stessi euroscettici a impedire che colui che diede il killer blow, il colpo di grazia, a Margaret Thatcher, l’europeista Michael Heseltine, divenne primo ministro.
Oggi major, forma, con gli ex premier Gordon Brown e Tony Blair, l’attacco a tre punte di chi voterà “in” (anche se non tutti pensano che questo trio porti molti consensi…), così come Heseltine e un altro grande del partito, Kenneth Clarke. Lo stesso Heseltine aveva avvertito Cameron in tempi non sospetti dei rischi nel lasciare libertà di coscienza ai suoi ministri.

Per ora, aldilà delle dichiarazioni pro o contro la permanenza dell’Ue, il confronto verbale resta molto pacato. Ma più si avvicinerà la fatidica data, più verranno alla luce le divisioni nel Cabinet. Anche perché un personaggio tutt’altro che di secondo piano – e con mire sempre più alte – come l’ormai ex sindaco di Londra, Boris Johnson, è entrato nella partita nel campo dei brexiters.
Pur con tutta la prudenza e la diplomazia del caso, Johnson si è schierato contro Cameron, con l’obiettivo di indebolirlo e, nel caso di vittoria degli “out” al referendum, chiedere le sue dimissioni, e, possibilmente, sostituirlo.

Ma la vittoria dei brexiters, qualcuno ha fatto notare, è impresa disperata. Nonostante l’Unione europea se la stia passando tutt’altro che bene, e che alcune delle questioni su cui sta arrancando siano state cavalli di battaglia degli euroscettici inglesi da decenni come l’immigrazione, la moneta unica e l’occupazione, domenica il Mail On Sunday ha pubblicato un sondaggio che mostra come, allo stato attuale, i britannici voterebbero in percentuale 48 a 33 a favore della permanenza nell’Ue, mentre il restante 19% è ancora indeciso.

Tutto può ancora succedere in questi mesi, ma una recente ricerca sui dati elettorali del passato della Chatham House, il prestigioso think tank britannico, mostra come per avere successo, la change option, il voto contro lo status quo, dovrebbe avere almeno 10 punti di vantaggio per ottenere successo. Che i brexiters abbiano tra le loro figure più rappresentative George Galloway – parlamentare ex-laburista che prese più volte le difese di Saddam Hussein ai tempi della Seconda Guerra del Golfo – e il leader dello Ukip, Nigel Farage, non sembra un punto a loro favore. E nemmeno a favore di Johnson, se vuole coltivare ambizioni di Governo. Stupisce la posizione dell’attuale Sindaco, così come quella del candidato Tory a sostituirlo, Zac Goldsmith, di famiglia tradizionalmente euroscettica, e schierato dalla parte dei brexiters in una città, Londra, che è la più europeista del Regno Unito.

Cameron già gongola, ma da qui al 23 giugno tutto può succedere.



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