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Vi racconto cosa succede davvero nell’Egitto di Al-Sisi

Egitto

Il caso di Giulio Regeni, ritrovato morto in Egitto, non può che scuotere le coscienze. Senza voler entrare troppo nel caso specifico – saranno gli inquirenti, sia italiani che egiziani, e il tempo, a chiarire cosa sia davvero accaduto – è possibile però fare qualche riflessione.

Dopo anni di viaggi in Egitto e in Medio Oriente, mi sono reso conto di come l’ambiguità sia la parola chiave per capire il mondo islamico oggi.

In Egitto si trova tutto e il contrario di tutto. Attivisti per i diritti umani, concerti in cui si cantano canzoni che raccontano amori omosessuali, islamisti rivoluzionari e alleati con il presidente Abdel Fattah Al-Sisi e un potere che lascia certe forme di libertà, ma che poi diventa implacabile se si sorpassa una sottile linea rossa, non sempre chiaramente identificabile.

Al Sisi è riuscito a stabilizzare il Paese, lasciando qualche piccolo spiraglio di democrazia, ma non ha saputo evitare una notevole militarizzazione che spesso confonde la semplice opposizione con terroristi, che pur non mancano. Non è raro che qualche poliziotto o squadrone paramilitare perda il controllo, commettendo atti di violenza mentre arresta persone che protestano, per poi tentare di nascondere l’accaduto.

Essendo il Medio Oriente precipitato in una guerra generalizzata, è facile ipotizzare che anche il governo egiziano sia cascato nella trappola di vedere i giornalisti, le organizzazioni per i diritti umani e i semplici ragazzi che protestano nelle università come fattori di destabilizzazione durante la guerra per stabilizzare i confini con la Libia ed il controllo del Sinai.

Un errore che avrebbero potuto evitate e che probabilmente tra dieci anni, quando la gente sarà meno spaventata per la crisi economica e percepirà il Paese come più stabile, lascerà ferite importanti nella società.

Come detto, ho sempre pensato che l’ambiguità sia la parola giusta per descrivere la situazione del governo egiziano e del mondo islamico in generale.

Vista la situazione della regione, Al-Sisi ha stabilizzato abbastanza il Paese e ha tenuto in piedi le elezioni. Consultazioni elettorali molto lontane dall’essere perfette, ma sempre miracolose se si pensa a quelle di tanti nostri alleati nella regione che, Turchia, Tunisia e Libano a parte, non le contemplano proprio.

Ha commesso però errori inutili e gravi sulla libertà di stampa e di protesta. Errori drammatici se comparati con i sogni di piazza Tahrir, ma “normali” se confrontati alla realtà di tutti i Paesi del Medio Oriente.

Esclusi forse Libano e Tunisia, le carceri mediorientali divorano esseri umani. Perfino la Turchia, che fa parte della Nato ed è in trattativa per entrare nell’Unione Europea, ormai imprigiona i giornalisti. Dall’Afghanistan alla Nigeria c’è un conflitto generalizzato in cui alcuni attori giocano due o tre guerre parallele su scacchieri diversi.

Oltre le scintille tra sciiti e sunniti, con l’Arabia Saudita che si scontra, con le armi o politicamente, con l’Iran in Yemen, Iraq, Siria e Libano, vi è poi un conflitto tra islamici fondamentalisti e quelli che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione: una guerra che travolge anche tutti i laici e le minoranze religiose come i cristiani. Questo scontro tra due diverse visioni religiose e di società ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria, o in parti della Libia.

Inoltre, vi è una guerra per procura che coinvolge le tre maggiori potenze sunnite del mondo arabo – Turchia, Arabia Saudita e Qatar – che, pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti, si combattono in Libia e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. L’Arabia Saudita appoggia una strana alleanza tra salafiti e militari laici, come Al-Sisi in Egitto e il generale Khalifa Haftar in Libia, e si oppone ai Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia.

In pratica, qualunque Paese islamico viene visto come fragile, perché al suo interno vi sono molte minoranze religiose o gruppi tribali, e viene fatto piombare in una guerra civile da una di queste forze per farlo divenire un nuovo campo di battaglia.

Al-Sisi, avendo capito questo, mostra i muscoli per far capire che l’Egitto è stabile e per questo è un naturale alleato dell’Occidente. Il presidente egiziano sta inoltre tentando di fare un lavoro di riposizionamento della società civile islamica. Al Sisi, che ha deposto i Fratelli Musulmani nell’ultima onda della rivoluzione egiziana nel luglio del 2013, ha più volte dichiarato che non sta affatto portando avanti una guerra contro l’Islam, ma una guerra per salvare l’Islam da false interpretazioni che offendono la religione.

Il presidente oltre ad avere proibito i partiti islamici (pur mantenendo una certa tolleranza nei confronti dei salafiti), ha incominciato una lunga battaglia perché Al Azhar, l’Università Islamica del Cairo, controllata dallo Stato, modifichi il suo insegnamento ai predicatori. Il nuovo governo ha anche affiancato al consueto concorso sulla conoscenza del Corano uno sull’interpretazione del vero spirito della religione islamica. L’Egitto ha inoltre iniziato un lungo percorso per modificare i libri di scuola, con lo scopo di formare milioni di poveri con idee meno bigotte. Anche se alcuni zelanti esecutori delle decisioni governative hanno pensato bene di bruciare i vecchi libri di scuola, dando secondo molti osservatori una tragica immagine del nuovo ordine del Paese.

Al-Sisi è appoggiato dalla classe meno abbiente e dalla maggioranza dei ricchi con più di trent’anni, ma compie l’errore di inimicarsi, nel lungo periodo, i tanti giovani, democratici e borghesi, delle città egiziane, che protestano per avere lavoro e più libertà. Sono una minoranza che però potrebbe essere sua naturale alleata nella lotta contro gli islamisti. Anche per questo è un errore metterli in carcere.

Ma non è solamente l’Egitto a compiere questo sbaglio: esclusi Tunisia e Libano, praticamente tutti i Paesi confinanti lo commettono. La situazione diventa ancor più drammatica se si guarda alla Siria e all’Iraq, dove chi la pensa in modo diverso viene ucciso o schiavizzato sessualmente dall’Isis e dove vi sono alcuni veri e propri tentati genocidi, come nel caso degli yazidi e dei cristiani.

Il governo ufficiale della Siria non uccide interi gruppi etnici o religiosi, anzi è espressione delle minoranze, ma di certo anch’esso, pur di rimanere al potere, non si fa problemi a uccidere i propri nemici e i civili che gli stanno attorno. Le opposizioni siriane appoggiate dall’Occidente, a parte quelle curde ostacolate dalla Turchia, non sembrano però, fino a oggi, aver mai fatto nulla per salvare le cospicue minoranze religiose, islamiche o di altre religioni dal fondamentalismo, anzi appartengono loro stesse a questi gruppi. Questo sembra spiegare perché Bashar Al Assad non cade. Le minoranze religiose preferiscono lui, con tutte le sue ombre, agli altri. Per questo l’Occidente dovrebbe ricominciare a parlare con il governo ufficiale.

Perfino l’Europa, di fronte all’islamismo e a questo conflitto generale, sta mettendo in dubbio alcuni dei suoi pilastri. Per esempio sotto pressione delle migrazioni di massa mette in discussione Shenghen e subisce altri scossoni.

Quello che mi sembra manchi oggi nel mondo islamico è il riconoscimento reciproco dell’altro e la libertà di interpretazione del Corano. Molti osservatori sottolineano che sono stati Paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, grazie ai soldi del petrolio, a finanziare in mezzo mondo associazioni caritatevoli che, in in cambio di lavoro e soldi, hanno fatto aderire al wahabitismo, forma estremista dell’Islam che non accetta la libera interpretazione del Corano.

Tradizionalmente l’Islam, che non ha una figura come il Papa, ha sempre goduto di una certa libertà di interpretazione. Basta conoscere i primi califfati di Damasco e Baghdad: i musulmani dell’epoca d’oro non convertirono i cristiani e non buttarono giù i templi di Palmira. Baghdad, conquistata nel VII secolo dopo Cristo, rimase a maggioranza cristiana fino al’XI e, sino alla caduta di Saddam Hussein, nel Paese esistevano ancora quasi un milione di cristiani e tantissime altre minoranze. La città degli Abbasidi era poi considerata uno dei maggiori centri per lo studio della filosofia nel mondo.

Ci vorranno decenni perché il mondo islamico riesca a ritrovare la sua anima. In attesa che gli islamici trovino i loro Gandhi, Mandela e Lutero, mentre i templi di Palmira vengono fatti saltare in aria, l’Europa dovrà tentare di affrontare queste crisi senza che, i necessari compromessi, la distruggano.

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