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La sposa del jihad che vuole tornare

“Mi sono pentita, voglio tornare a casa”. L’appello telefonico di Meriem, la diciannovenne di origine marocchina partita per il jihad lo scorso luglio da Arzergrande, ci pone di fronte ad un caso spinoso. Difficile immaginare che il suo desiderio possa realizzarsi: i jihadisti non tollerano diserzioni. Non vi è chi possa aiutarla: non vi sono né italiani né alleati in quei campi di battaglia e chi, tra gli autoctoni, potrebbe fornire informazioni rischierebbe la pelle. Nella remota ipotesi che Meriem riuscisse a mettersi in salvo, comincerebbero inoltre i problemi giudiziari. La nuova normativa antiterrorismo varata l’anno scorso punisce anche le reclute oltre che i reclutatori.

Siamo di fronte dunque ad un problema pressoché irresolubile, che non lascia ben sperare per la sorte di questa ragazza che, come centinaia di coetanee europee, si era fatta sedurre dall’utopia dello stato islamico. Insieme alla speranza, la famiglia di Meriem deve in questo momento nutrire non poco dolore. La fuga della figliola aveva prostrato i genitori e con essi l’intera comunità di Arzergrande, sbigottita per la partenza di una studentessa modello, quarto anno dell’istituto turistico di Piove di Sacco e due stage alle spalle. Nonostante il modesto bugdet familiare, alla fanciulla non mancava nulla, compresi telefonino e computer.

Questi ultimi si sono trasformati però nel volano della sua radicalizzazione. L’adesione al jihad passa oggi soprattutto per l’assidua frequentazione di spazi virtuali dove si condividono istruzioni e parole d’ordine. Il contatto diretto con persone che condividono gli stessi ideali spingono poi a passare all’azione. Fu così per Meriem, che sarebbe stata influenzata da una ragazza di Campolongo Maggiore che, dicono le testimonianze, le avrebbe fatto “il lavaggio del cervello”. Dall’azione congiunta delle frequentazioni telematiche e di quelle reali sarebbe scaturita “Sorella Rim”, il nom de guerre di Meriem nelle praterie di internet. Spazi sconfinati che Rim avrebbe fecondato con parole inequivocabili, come la frase rinvenuta sulla sua pagina Facebook: “combattere in Siria contro gli oppressori occidentali”. Il suo principale contribuito sarebbe stato però la compilazione di una “kill list”: un elenco di dieci obiettivi, tra cui l’ex comandante generale dei carabinieri, il questore di Firenze e il tenente dei carabinieri di Dolo, preceduto da un appello: «Un messaggio per i lupi solitari: aspettiamo le vostre azioni». Fu questa mossa che fece scattare l’indagine della Procura di Roma. Ma i tempi della giustizia non sono riusciti a fermare la corsa di Meriem per le terre del jihad, raggiunte con un volo partito da Bologna e atterrato in Turchia, porta girevole per la guerra santa di al Baghdadi.

A distanza di sette mesi, molte cose saranno successe nella vita e nella mente di questa sposa del jihad. Ma la sua richiesta di aiuto non può lasciarci insensibili. Così, nel pur improbabile caso di un ritorno di Meriem nella pianura padovana, le autorità potrebbero prendere in considerazione l’ipotesi di commutare la pena in un servizio civile da svolgersi a beneficio degli altri giovani musulmani italiani che rischiano di cadere nella stessa trappola. Una mujaheddin che ha ripudiato questa ideologia di morte può essere il miglior asso nella manica di un paese che, volente o nolente, è in guerra con le armate del califfato.



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