Gli investitori annaspano alla ricerca dei veri motivi del forte aumento della volatilità di quest’anno nei mercati azionari, obbligazionari, delle valute e delle materie prime. Il calo di giovedì 11 in Asia ha seguito il quarto giorno consecutivo di ribassi dei principali indici degli Stati Uniti.
Mercoledì 10 il presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha segnalato i rischi prospettici delle economie che potrebbero ritardare i piani di aumento dei tassi di interesse della banca centrale americana.
Ciò che sembra plausibile un giorno è rapidamente smentito quando il mercato vira nella direzione opposta. Non molto tempo fa, il crollo dei prezzi del petrolio sembrava essere la motivazione di fondo del ribasso degli indici azionari. Ma ora che l’indice S&P500 è sceso più del suo sottoindice dell’energia, entrambi i cali impallidiscono di fronte al grande ribasso del settore finanziario.
Trovare una motivazione ampiamente accettata e generale si è fin qui dimostrato fuorviante, e ciò ha portato alla nascita di molteplici spiegazioni spesso in concorrenza tra loro e in gran parte insoddisfacenti. Eppure, gli analisti e gli operatori continuano a cercare, sperando così di elaborare una mappa per gli alti e bassi che ci attendono. «C’è una confluenza di cattive notizie in tutto il mondo che scuote veramente la fiducia degli investitori», afferma Brad McMillan, responsabile degli investimenti del Commonwealth Financial Network, che sovrintende a circa 100 miliardi di investimenti. «Questa volatilità è percepita come molto insolita e inquietante, il che sta esacerbando il problema».
Ma qual è il modo migliore per spiegare questi movimenti di mercato? Esistono cinque teorie:
1) È colpa del fast money
Per gran parte dello scorso anno, man mano che la Federal Reserve si apprestava ad aumentare i tassi di interesse a breve, gli investitori avevano scommesso che le banche avrebbero approfittato dell’aumento dei tassi e del concomitante aumento della differenza tra quanto fanno pagare sui prestiti e quello che pagano sui depositi. Ma le azioni finanziarie sono precipitate quest’anno perché gli investitori hanno cambiato idea e hanno abbracciato il concetto per cui i tassi non aumenteranno ancora per diversi anni. La Banca del Giappone ha scioccato il settore finanziario globale quando ha tagliato i tassi fino a portarli in territorio negativo il 29 gennaio scorso. L’episodio mette in luce sia l’oscurità che regna sull’economia globale sia il frenetico ottovolante borsistico che si è sviluppato sulle principali questioni macroeconomiche nel corso dell’anno passato. «Il denaro veloce si era spostato nelle banche alla fine del 2015, nel tentativo di anticipare gli effetti del rialzo dei tassi, e altrettanto velocemente è uscito dai titoli finanziari», sostiene Diane Jaffee, portafoglio senior manager di Tcw Group.
2) L’ansia per lo yuan
Alcuni sostengono che l’attuale turbolenza dei mercati abbia le sue radici in Cina. Molti investitori credono il Paese non avrà altra scelta che svalutare lo yuan, una mossa che probabilmente aggraverà i problemi economici globali in quanto inasprirà la concorrenza transnazionale sui già magri proventi da esportazioni. I funzionari cinesi dicono che non hanno intenzione di svalutare, ma alcuni hedge fund stanno cercando di forzare loro la mano scommettendo miliardi di dollari contro la valuta. Gli analisti guardano attentamente a questo duello, dopo che la svalutazione dello yuan dell’agosto scorso aveva innescato vendite a catena di titoli in tutto il mondo, motivate dal fatto che la Cina (a lungo vista da Wall Street come avara di statistiche economiche affidabili) sarà ben presto costretta a una resa dei conti economica. Molti investitori temono che i recenti sviluppi implicano l’arrivo di «un atterraggio duro», come sostiene Wayne Lin, gestore di portafoglio presso Qs Investors.
3) È colpa dei fondi sovrani
I Paesi produttori di petrolio negli anni hanno versato miliardi di dollari nei propri fondi sovrani di investimento, quando i prezzi del greggio erano più alti. Secondo alcuni osservatori, ora stanno liquidando i titoli in cui hanno investito, acquistati in tempi più felici, accelerando il sell-off del mercato statunitense. Secondo i dati di Deutsche Bank, tra i titoli americani con la più alta concentrazione di proprietà dei Paesi ricchi di petrolio ci sono il Nasdaq, Tiffany, Aflac e BlackRock. Naturalmente, non c’è visibilità su chi stia o non stia liquidando le posizioni e c’è qualche dubbio che questi fondi, per quanto grandi, possano davvero esercitare un grande effetto sui mercati statunitensi: JpMorgan prevede che quest’anno i fondi sovrani saranno costretti a vendere titoli per 75 miliardi di dollari in tutto il mondo, un’inezia a confronto del il mercato statunitense che capitalizza 20.950 miliardi di dollari. «I prezzi del petrolio saranno costantemente in discussione, ma non vedo una minaccia mortale per i mercati azionari americani e globali proveniente dal flusso di vendite dei fondi sovrani dei paesi petroliferi», sostiene Ben Mandel, strategist globale multiasset di JpMorgan Asset Management.
4) Gli Stati Uniti risucchiati dal vortice degli emergenti
Molti investitori sono preoccupati che gli Stati Uniti, che negli ultimi anni sono stati l’economia che meglio ha performato nel mondo sviluppato, stiano per essere trascinati in basso da alcune forze globali, tra cui l’aumento del dollaro. Nel mese di gennaio il settore manifatturiero americano ha subito una contrazione per il quarto mese consecutivo. La crescita di posti di lavoro, che è stata a lungo la stella polare dell’espansione economica, è rallentata il mese scorso. I dirigenti della Fed hanno segnalato preoccupazione al riguardo. Allo stesso tempo, la disoccupazione il mese scorso è scesa e i salari sono aumentati, e molti indicatori di future difficoltà economiche sembrano esagerati (per esempio, il collasso delle azioni di molte banche è tale che parecchi importanti istituti di credito degli Stati Uniti sono valutati in borsa meno del valore del loro patrimonio netto di bilancio), il che accentua l’incertezza. «Il rischio maggiore nella mente di tutti è che ci sarà un forte rallentamento nelle economie dei mercati emergenti e che questo finirà per avere effetto anche sull’economia americana», ha detto David Lefkowitz, strategist azionario di Ubs Wealth Management Americas.
5) La crescita non cresce
Il crollo dei prezzi del petrolio dal giugno 2014 è stato in gran parte attribuito a un eccesso di offerta, in quanto tutti i produttori di petrolio del mondo continuano a estrarre greggio anche a prezzi depressi. Ma quando i prezzi del barile sono scesi sotto i 30 dollari, quest’anno, gli investitori hanno iniziato a mettere in conto anche un rallentamento della domanda di petrolio. «Se i prezzi delle materie prime nel loro complesso sono generalmente deboli, essi suggeriscono che in linea generale, la domanda globale è debole», sostiene Paul Nolte, portfolio manager a Kingsview Asset Management, che gestisce circa 150 milioni di dollari.
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(Questo articolo è stato pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)