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I partner mediorientali dell’Alleanza Atlantica e “North Thunder”: quando la scacchiera si complica

Roberto Race
Roberto Race

Al termine dell’ultima riunione dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles è stata presa la decisione di orientare il dispositivo di sorveglianza navale alleato nel Mar Egeo e quello di intelligence lungo il confine turco-siriano. Tecnicamente i compiti non differiranno molto da quelli svolti dalla Marina italiana nello Stretto di Sicilia. Analogamente alla missione italiana, anche il dispiegamento di assetti navali NATO ha come referente principale Frontex e le guardie costiere dei paesi rivieraschi, in primis Turchia e Grecia. Di sponda, entra poi l’accordo trilaterale greco-tedesco-turco in base al quale gli assetti turchi non possono utilizzare lo spazio aereo e marittimo greco e viceversa, perciò il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg ha dovuto affrontare anche il problema di non far transitare le navi da guerra turche nelle acque territoriali greche, eccezion fatta per quelle in forza al Secondo gruppo navale permanente della NATO.

Jens Stoltenberg con Matteo renzi
Jens Stoltenberg con Matteo renzi

Come se non bastasse, la Turchia fa ormai apertamente da capofila ad una serie di Paesi arabi formalmente vicini all’Alleanza, pur essendo stati riconosciuti tra i finanziatori diretti dell’ISIS. Contraddizione in termini, quest’ultima, che genera insinuazioni sulla lealtà dei Paesi del Golfo la cui reale priorità è di opporsi al gruppo dei “4+1”, ossia l’asse russo-sciita.
E’ in questa cornice che all’inizio della scorsa settimana l’Arabia Saudita ha lanciato l’esercitazione “North Thunder”, nella quale sono coinvolti anche Emirati Arabi, Giordania, Bahrein, Qatar, Ciad e Pakistan, per citarne alcuni “eccellenti”.
Sullo sfondo c’è poi la guerra economica tra Russia ed Arabia Saudita, combattuta sul terreno del mercato del petrolio che tanto interessa anche gli Stati Uniti, oltre alla questione libica, altro scenario inquietante per il nostro Paese, visto il gran fermento che lo contraddistingue dalla caduta di Gheddafi.
Proprio in questi giorni ne sta parlando il ministro Roberta Pinotti, sostenitrice sul versante internazionale di un approccio moderato, ben coordinato con le forze del nascente (si spera) governo locale e finalizzato sia alla stabilizzazione del Paese che al respingimento delle frange dell’ISIS presenti di fronte alle nostre coste.
Anche il premier Matteo Renzi non ha perso l’occasione per confermare la disponibilità del governo italiano ad offrire supporto all’alleato statunitense per le proprie operazioni nel Mediterraneo, contribuendo però a far aumentare ulteriormente la temperatura del dibattito politico. Invece si attende una qualche reazione a marchio UE, principalmente dalla Lady Pesc Federica Mogherini, mentre sotto il profilo delle Organizzazioni Internazionali, la European Defence Agency non riesce a ritagliarsi un ruolo nello scacchiere.
E quindi l’unico riferimento è, almeno per il momento, la NATO.
Tutto ciò senza dimenticare che la Siria è sempre più “un campo di battaglia di tutti e di nessuno”, tra lo Stato Islamico, il decaduto Assad, le palesate ambizioni russe, l’ombra iraniana e le spinte bellicose turco-saudite. Un pericoloso cocktail in cui ogni ingrediente può innescare reazioni irreversibili tra attori che portano troppo vicino al campo di battaglia, con la classica scusa delle esercitazioni, antichi rancori mai risolti.

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